Mario de Roma e l’orologio di Castel Ferretti

… ove si narra come uno strumento del tempo, incastonato in una torre, necessario per la comunità paesana, fermo per anni a causa di un tragico evento naturale, sia stato rimesso in funzione grazie alla caparbietà, alla volontà, all’inventiva di alcune persone e ricondotto al suo importante compito.

Indice

Premessa (Loredana Barbanera)

Mio padre, Mario Barbanera (Loredana Barbanera)

Mario e l’orologio

Appendice Storica

Bibliografia

Dall’album fotografico di Mario…

Premessa

Ricorrono in questo 2023 ormai al termine cento anni dalla nascita di mio padre. Ho sempre pensato di raccogliere i suoi ricordi, le sue foto, le sue opere, il suo lavoro, ma è stato per me sempre difficile iniziare, tante erano e diverse le attività (in ambito lavorativo, politico, sindacale, sportivo, civico) alle quali per il suo carattere eclettico dedicò il suo tempo. Ora credo che sia arrivato il momento di cominciare per fare cosa gradita ai tanti che gli hanno voluto bene e contemporaneamente per rispondere a coloro invece che sembrano osteggiarne il ricordo.

Dopo l’incontro con Athos Geminiani e la consorte Lucia Perazzoli, che hanno realizzato i bellissimi volumi de “Il Novecento a Falconara” (Viareggio, 2004-2021), ho voluto dare corpo all’idea di raccogliere in una pubblicazione la documentazione relativa al restauro dell’orologio del castello di Castelferretti, svolto da mio padre negli anni ’80 del secolo scorso.

C’è poi stato un secondo fortunato incontro quello con Marco Molinelli, castelfrettese di nascita, a lungo docente di latino e greco e poi preside a Forlì dell’Istituto Professionale e del Liceo Classico che, al tempo del restauro dell’orologio, ricoprendo la carica di Presidente del Consiglio di Quartiere del nostro paese, seguì quasi fino all’ultimo, man mano che avanzava, l’impresa di mio padre e di coloro che con lui collaborarono. A Marco è pertanto affidato il compito di narrare la storia che dà il titolo a questo libro. A Marco ho anche chiesto di farsi carico di qualche pagina sulla storia del castello e dei Ferretti che può essere di invito al lettore per ulteriori approfondimenti nella conoscenza della storia locale.

Grazie all’impegno di Athos e di Marco nella ricerca documentaria, le carte relative al restauro dell’orologio del castello raccolte, conservate o scritte di suo pugno da mio padre si sono arricchite con ulteriore documentazione di archivio di natura amministrativa o giornalistica reperita presso la Soprintendenza ai Monumenti per le Marche e presso l’Archivio di Stato di Ancona.

La base documentale così definita, integrata dai suoi ricordi ancora vivi e da qualche copia di atti del Consiglio di Quartiere da lui conservata o messa a sua disposizione da alcuni compaesani, ha consentito a Marco di ricostruire la vicenda del recupero dell’orologio e del suo riavvio a distanza di oltre dieci anni dal terremoto del 1972, impresa proposta da mio padre, realizzata da lui e da chi con lui collaborò, in particolare Lino Pierini, sostenuta con passione e generosità da Ferminio Massi.

Athos Geminiani mi ha aiutato nella preparazione tipografica di questa pubblicazione. Gliene sono infinitamente riconoscente. Un grande ringraziamento naturalmente va a Marco Molinelli.

Castelferretti, dicembre 2023                                                                                                   

Loredana Barbanera

Mio padre, Mario Barbanera (1923-1990)

Mio padre, Mario Barbanera, macchinista delle Ferrovie dello Stato, conosciuto in paese con il soprannome di Mario de Roma, ci ha lasciati ormai da più di trenta anni.

Un dolore mai rimarginato per mia madre, Vanda Grilli, e per me.

Lei ed io, nel dolore, non ci siamo mai sentite sole, perché la comunità del nostro piccolo paese ci ha gratificato con ricordi simpatici e affettuosi di mio padre, della sua personalità esuberante e per la riconoscenza dovuta all’aiuto che egli aveva prestato a molti.

Il compito, infatti, che si era imposto nella vita, è stato quello di un impegno costante per la costruzione di una società in cui fossero rispettati i diritti di tutti, in cui ci fosse uguaglianza e solidarietà a fianco del Partito Comunista Italiano e della C.G.I.L.

Prima di procedere nel tracciare la biografia di mio padre credo sia giusto soddisfare la curiosità di tanti: ma perché Mario, nato Barbanera, veniva chiamato Mario de Roma? Racconta Sirio Sebastianelli che il soprannome glielo aveva lasciato in eredità il nonno Vespasiano, il quale, un giorno, attraversando la ferrovia su di un calesse trainato da un cavallo, veniva investito dal treno proveniente da Roma, e per sua fortuna rimaneva salvo e integro sulla vettura, ma non così il cavallo che invece ne era stato travolto. I paesani, pigri e diretti, per identificarlo, tagliarono la storia e ricordarono solo la provenienza del treno, Roma. Un soprannome che fa amare Mario ancora oggi dai compaesani.

Mario nasce a Castelferretti il 10 aprile 1923 da Marino Barbanera e da Stamura Graziosi, bella e fiera come l’omonima eroina   anconetana. È il primo di tre fratelli: dopo di lui nasceranno Marina e Romualdo.

Castelferretti, nel ‘900, è un paese di poche anime, situato nella Valle dei Ronchi abbastanza rigogliosa, fra centri marini e collinari, un’appendice di Falconara Marittima dalla quale ha sempre avuto il desiderio di affrancarsi. In questo borgo di contadini ed artigiani la cultura è fervida, prende origine dalle perentorie necessità dei rozzi e schietti paesani, per tramutarsi in valori e scelte sociali. Crescono così uomini forti con spirito combattivo, anarchici, repubblicani, socialisti, quali Romeo Sterlacchini, sindacalista alla Manifattura tabacchi e Sirio Sebastianelli, giornalista de l’Unità.

La famiglia si trasferisce dapprima ad Ancona, poi a Bologna al seguito di Marino, macchinista delle Ferrovie dello Stato. Nella città emiliana Stamura, donna di grande carattere, va a lavorare alla locale Manifattura Tabacchi come sigaraia.     

A Bologna Mario frequenta l’Istituto Tecnico che sarà costretto a lasciare all’ultimo anno a causa della prematura morte per malattia del padre all’età di 39 anni. Pratica lo sport: calcio, atletica leggera e per poco tempo anche la boxe, disciplina in cui conquista, a 15 anni, il titolo di campione italiano dei novizi.

Rimane nella città dotta fino all’età di 18 anni, quando si trasferisce di nuovo al paese nativo.

A Castelferretti Mario ritorna dapprima solo, poi lo seguirà la sorella Marina, detta Carla, nella casa natia, sita in Via XXV Aprile al n. 24.

Mario, figlio maggiore, diventa capo famiglia. Frequenta un corso di disegnatore presso le Ferrovie dello Stato e viene assunto al Deposito Locomotive di Ancona, appunto come disegnatore.

Al paese nel 1943 conosce e si innamora di Vanda Grilli, diciassettenne e giovane operaia alle “Cinte” di Filipponi a Villanova di Falconara Marittima, proveniente da una famiglia molto modesta, tanto che il padre Eugenio è costretto per un tozzo di pane e convinto dal fascismo ad espatriare in Germania, dalla quale tornerà magro come un chiodo ed ammalato. Mario inizia a frequentare i giovani del paese che si riuniscono presso il negozio di ciabattino dei fratelli Re, noti antifascisti, proprio nel periodo in cui gli italiani si riuniscono in gruppi per osteggiare la dittatura fascista.

Mario, forte di una educazione famigliare – la mamma era una passionale antifascista – comincia a riunirsi con il gruppo già esistente al paese di partigiani e a svolgere piccole azioni preparatorie alla liberazione dell’Italia. Un giorno, mentre cerca di rubare nel campo di aviazione di Falconara Marittima le armi per rifornire i partigiani che combattono sulle montagne marchigiane, viene scoperto e messo al muro dai tedeschi. La fortuna vuole che sia presente al fatto un interprete italiano che abita proprio davanti casa, in affitto dalla famiglia Pierpaoli, il quale lo salva da morte certa. Vanda racconta che Mario era tornato a casa bianco come un cencio. In un’altra occasione cerca di fermare i nazisti durante la loro ritirata sotto la pressione degli Alleati, nella collina di Monte Domini di Castelferretti.

L’idea antifascista non lo abbandonerà mai per tutta la vita; mio padre diceva che bisogna essere partigiani sempre, tutti i giorni, e ne dava testimonianza non accettando mai alcun compromesso e combattendo ogni sopruso perpetrato non solo ai suoi danni, ma a quelli di tutti, tanto che viveva la sua casa come la “Casa del Popolo”.

La guerra finisce. Mario e Vanda sono pieni di speranza e vogliono recuperare la gioventù perduta sotto la dittatura fascista e le bombe. Si sposano dapprima in Comune (novembre 1946), poi in Chiesa (febbraio 1947) con quel Don Baldò, prete alto e autoritario, che metteva soggezione. Il loro viaggio di nozze li porta a Bologna. Nel 1947 nasco io, Loredana, unica e amatissima figlia.

Mario comincia a segnalarsi nell’impegno per il paese e organizza la prima squadra di calcio nel 1950, con la quale ottiene buoni risultati nel Campionato locale. Dei motori è poi davvero un appassionato, tanto che ne costruisce uno a scoppio e lo applica ad una bicicletta con la quale riesce, anche se per poco tempo, visto il rumore assordante e fastidioso che provoca, a scorrazzare per il paese.

Da semplice aiuto macchinista, dopo avere spalato quintali di carbone e avere studiato alla Scuola Tecnica del Deposito locomotive di Ancona, attraverso corsi ed esami, passa da macchinista di terza, seconda, prima classe, fino al più alto livello: quello di macchinista del “Settebello”, treno rapido di allora.

Ad ogni avanzamento di carriera viene trasferito per pochi mesi in luoghi lontani. È così che trascorre dei brevi periodi in Sicilia, a Palermo e a Castelvetrano, con la famiglia, dove continua la sua passione politica di propagandista del P.C.I. e organizza nuove sezioni nei piccoli paesi che percorre con il treno, tanto che Vanda non vede l’ora di riportarselo a casa sano e salvo. Raccontava infatti che, mentre trasportava l’acqua con cisterne sul treno merci verso l’interno della Sicilia, veniva fermato dalla mafia che si impadroniva del prezioso elemento, così scarso in quella terra arida.

Tornato al deposito locomotive di Ancona, mio padre vive quasi in simbiosi con i compagni di lavoro, con i quali condivide battaglie sindacali per migliorare le condizioni di lavoro, ma anche serate conviviali, dove il suo carattere deciso ma allegro lo fa essere scanzonato e simpatico.

È stato talmente amato nel campo del lavoro che al termine del viaggio, nell’ultimo giorno di servizio, si ritrovano ad attenderlo sulla banchina nella Stazione di Ancona sua moglie, sua figlia, i parenti e i tanti amici con la Banda musicale di Castelferretti che, appena Mario scende dal treno, intona in suo onore l’“Internazionale”.

Contemporaneamente all’impegno lavorativo corre per Mario anche quello di militante del Partito Comunista Italiano. Un militante pieno di passione. Nel 1972 il giornale l’Unità’, quotidiano del P.C.I., gli conferisce un premio, quale diffusore del giornale: un viaggio a Mosca, in occasione delle manifestazioni del 1° Maggio sulla Piazza Rossa.

Nel famoso grottino di Piazza Albertelli, scavato e fatto risorgere dalla terra medievale, con Massi Armando e Casoni Americo, Mario è un vero attivista. Viene ospitato l’equipaggio di una nave russa ferma al Porto di Ancona, visitato poi anche dai giovani comunisti; è attivo nell’organizzare le Feste dell’Unità, prima in piazza, poi al Campo Sportivo; s’inventa persino una gara di gokart intorno al Castello, circondato di balle di fieno; frequentatissime sono le cene con i contadini al Ristorante Faustini, dopo la raccolta del grano; inoltre tiene lezioni gratuite per i giovani che desiderano presentarsi ai concorsi delle FF.SS. La sua attività politica non è da tutti ben vista: non mancano, purtroppo, lettere minatorie maldestramente mascherate con grafia da semianalfabeta, né bozze “di lungo piede” alla sua Dauphine bianca.

Oltre alla militanza politica non posso non ricordare il suo impegno nell’organizzare il Sindacato dei Pensionati della C.G.I.L., o la costituzione a Castelferretti del Circolo Ricreativo A.R.C.I. di cui fu il primo presidente, carica che tornerà ad occupare nel 1989 prima di ammalarsi. E, ancora, il suo impegno nell’A.N.P.I., l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia alla cui sezione falconarese era iscritto.

Innamorato di Castelferretti, al paese dedicò un particolare impegno, durato quasi un decennio: il primo restauro dell’orologio del castello (fermo dal terremoto del 1972) e la successiva cura e custodia: un impegno cui mio padre teneva tantissimo, alla quale è, appunto, dedicato il “racconto” di Marco Molinelli.

Mario muore il 28 marzo 1990. Un sabato precedente il Natale 1989, a notte tarda, tornato da una manifestazione di pensionati del S.P.I. C.G.I.L., accusa stanchezza che di lì a pochi giorni si manifesterà in malattia.

Ospite dell’Ospedale di Chiaravalle, reparto di Medicina, è accompagnato al termine della sua vita con tanta dedizione e amore da tutto il personale del Reparto guidato dal prof. Marchegiani. Per ringraziamento, io e mia mamma decidiamo di regalare una sonda per ecografia al collo grazie anche alle elargizioni da parte di tanti castelfrettesi.

Il funerale laico viene celebrato in Piazza Pilo Albertelli alla presenza dei compaesani, dei compagni del P.C.I. e dei Partigiani dell’A.N.P.I., primo fra tutti quel suo amato amico-compagno di lavoro e di lotte Angelo Falzetti di Fabriano, Presidente A.N.P.I. della Zona Montana.     

L. B.

Mario e l’orologio[1]

Premessa 

L’urulogio del Castello

In quell’epuca cul terremoto del ’72, s’era rotto l’urologio del Castello e la gente nun sapeva più che ora era. Mario de Roma, un po’ alla volta, l’ha rimesso a posto: ha rifatto i ‘ngranaggi, da bon meccanico che era… e ‘n bel giorno, el vecchio e monumentale urologio de Castelfretto ha ‘ncuminciato a ‘ndà, preciso preciso, indietro al tempo. Quale tempo? C’è chi dice che quelo riparato da Mario de Roma andava cu l’ora de Mosca, mentre i tocchi della Chiesa ndava cu l’ora del Vaticano…[2]

Così una voce di paese ricordava con simpatia l’impresa promossa da Mario de Roma e volta al restauro dell’orologio del castello di Castelferretti danneggiato dal terremoto del 1972. Il ricordo risale al 2009: erano già allora trascorsi tanti anni da quell’impresa che essa poteva solo essere datata in un periodo non precisato (in quell’epuca). Lo scorrere del tempo inesorabilmente oggi, quattordici anni dopo il 2009, rende ancora più difficile non solo collocare con precisione il lavoro di Mario e di chi collaborò con lui, ma anche comprenderne e apprezzarne il valore. Poiché ho avuto la fortuna e il piacere di essere stato anch’io, per lungo tratto, in mezzo a quell’impresa, in quanto Presidente del Consiglio di Quartiere nel biennio 1982-1983 e consigliere nei due precedenti anni, mi è sembrato giusto, nel centenario della nascita di Mario, raccontarne lo svolgimento.

Di seguito proverò, dunque, a ricordare innanzitutto, nel capitolo 1, il restauro dell’orologio [3] del castello di Castelferretti che, nel corso della prima consiliatura del Consiglio di Quartiere eletto a suffragio diretto (1980-1985), fu svolto da alcuni volontari del paese con alla testa Mario Barbanera (1923-1990). L’impresa, nata dalla proposta di Mario nel corso del 1981, subito condivisa da Ferminio Massi (1940-2005) nel periodo della sua presidenza del Consiglio di Quartiere e anche dopo, conobbe poi la sua fase di preparazione, per così dire, amministrativa tra la primavera del 1982 e l’estate del 1983, si realizzò quindi tra l’autunno 1983 e la primavera del 1984. Si trattò di un esempio di impegno civico che non deve essere dimenticato e che valorizzò anche il ruolo di coordinamento e di promozione della partecipazione dei cittadini alla vita pubblica, affidato dalla legge allora vigente 278/1976 Norme sul decentramento e sulla partecipazione dei cittadini nella amministrazione del comune al Consiglio di Quartiere e al suo Presidente. L’intervento di restauro in questione, senza nulla togliere a quelli che seguirono in anni più recenti, è da considerarsi fondamentale, perché, dopo e in modo assolutamente indipendente dai lavori sulla parte di proprietà pubblica del Castello resisi necessari a seguito del terremoto del 1972 e svolti dall’impresa del compianto Eolo Bramucci, non solo rimise al proprio posto e in funzione l’orologio dotandolo della carica automatica, ma provvide contestualmente anche alla sistemazione del quadrante e del rosone. E tutto sotto la guida e secondo le indicazioni della Soprintendenza ai Monumenti di Ancona. Questa prima parte è quella in cui riaffiorano, ancora abbastanza vivi, i miei ricordi, quasi sempre a conferma di quanto testimoniato dalle carte di Mario, talora a darne l’integrazione necessaria per comprendere correttamente, a distanza di anni, il significato e il valore di quanto vi si trova espresso.

Nel capitolo 2 scriverò invece di come Mario continuò, fino a pochi mesi prima della sua morte, a occuparsi con scrupolo e passione della manutenzione dell’orologio finalmente tornato a scandire il tempo della vita del paese: in questo secondo momento del racconto inquadrerò lo svolgimento dei fatti, non avendolo io vissuto direttamente perché ormai lontano da Castelferretti, essenzialmente dalla prospettiva di Mario quale si ricava da documenti da lui stesso scritti o promossi (a quest’ultima categoria appartengono, vedremo, gli articoli usciti sulla stampa locale tra il 1987 e il 1989).

Il capitolo 3, prendendo spunto da un articolo del novembre 1991 sull’imperfetto funzionamento dell’orologio, rende conto di quanto, dopo la morte intervenuta l’anno prima, il ricordo della cura che Mario gli aveva riservato fosse vivo tra i cittadini.

Cronologicamente, dunque, la storia che racconterò copre quasi per intero il decennio tra il 1980 e il 1990. Per la sua ricostruzione mi rifarò, oltre che ai ricordi ancora vivi, miei e di altri compaesani, sia a quanto si trova tra le carte di Mario Barbanera, oggi conservate dalla figlia Loredana, sia ad altri documenti reperiti presso la Soprintendenza ai Monumenti (d’ora in poi da me citata semplicemente come Soprintendenza) sia ad articoli della stampa locale.

Tra le carte di Mario sono presenti:

  • quattro ritagli di articoli della stampa locale, tutti originariamente senza indicazione della data di pubblicazione, ma ai quali la mia ricerca, condotta in particolare presso la Biblioteca dell’Archivio di Stato di Ancona [4], è riuscita ad assegnare una precisa collocazione cronologica: tre uscirono dopo la conclusione dell’impresa, uno dopo la morte di Mario;
  • due sue ricostruzioni autografe dell’impresa [5]: la n. 1 intitolata L’orologio del paese torna a battere i minuti, la n. 2 L’orologio del paese di Castelferretti, entrambe senza data, ma risalenti agli anni successivi alla sua conclusione (sicuramente dopo il 1985, perché scritte su pagine di un’agenda di quell’anno)
  • la domanda con cui nell’aprile del 1983 egli manifesta ufficialmente al Comune di Falconara M.ma la propria disponibilità a svolgere il lavoro di restauro del quadrante dell’orologio;
  • un foglio dattiloscritto contenente le prescrizioni della Soprintendenza per il restauro del quadrante e del rosone.
Foto n. 1 L’orologio del paese torna a battere i minuti.
Foto n. 2 L’orologio del paese di Castelferretti.

Purtroppo, non sono più disponibili negli Archivi Comunali gli atti (verbali di riunione, corrispondenza in entrata e in uscita del Consiglio di Quartiere di Castelferretti della consiliatura 1980-1985). Ne conservo per fortuna in copia alcuni nel mio archivio personale. Sarebbe, certamente, stato utile averli tutti a disposizione per poter assegnare una definitiva e certa collocazione cronologica ad alcuni momenti dell’impresa di Mario, perché la vicenda del restauro dell’orologio vide, come dicevo, protagonista il Consiglio di Quartiere, in particolare tre suoi presidenti: Ferminio Massi, nella fase di primissimo avvio, il sottoscritto per la successiva e più ampia fase di pianificazione amministrativa e pressoché intera esecuzione dell’intervento, Sauro Bucciarelli nell’ultima, quando giunse finalmente a soluzione il problema della carica automatica dell’orologio.

  1. Il restauro dell’orologio del Castello.
Foto n. 3 La torre dell’orologio

Mi sembra giusto partire con la foto sopra riportata che traggo da Falconara 1975-1980 (aprile 1980, p. 82), pubblicazione voluta dall’Amministrazione Comunale di Falconara M.ma per un bilancio di fine mandato. La foto è stata certamente scattata dalla Associazione “Amici della cultura” – curatrice anche dei testi della pubblicazione – nei primi mesi del 1980[6] in vista della preparazione della stessa e può essere utile per fare un’ipotesi su quando, a causa del terremoto, l’orologio cessò di funzionare. Il terremoto iniziò nella serata del 25 gennaio 1972 con la scossa di magnitudo 4,5 delle ore 20.24, conobbe poi la più violenta manifestazione alle 18.55 del 14 giugno 1972 raggiungendo i 4,7 di intensità. Ricavo questi dati dalla pagina dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia approntata in occasione del cinquantesimo anniversario dell’evento sismico che a lungo colpì la provincia: https://ingvterremoti.com/2022/06/09/i-terremoti-del-1972-nellanconetano/.

Se si osserva la foto, ci si accorge che la sfera delle ore è sul numero VII, mentre quella dei minuti tra il numero I e il numero II: la posizione è tale da far ritenere che l’orologio sia stato probabilmente fermato dalla scossa di magnitudo 4.5 delle 7.08 del 5 febbraio, giorno in cui, come da tabella 1, riportata nella pagina dell’INGV citata, vi furono altre due scosse quasi simili per forza.

La foto lascia con immediatezza intravedere, così come quella in bianco e nero in alto di p. 44 della medesima pubblicazione, che il muro esterno della porzione del Castello di proprietà comunale era stato già restaurato e ripulito; infatti, la didascalia a questa seconda foto recita “Veduta della torre d’ingresso con la cortina muraria ripristinata”. Mancano gli infissi alle finestre del primo e del secondo piano, mentre la finestra del piano terra è murata per evitare le incursioni notturne di qualche malintenzionato. Segno che i lavori di ristrutturazione per i quali erano stati stanziati 150 milioni di lire (vedi Falconara 1975-1980, p. 44) nella primavera 1980 non si erano ancora conclusi all’interno dei locali di proprietà comunale. Si conclusero, vedremo, nel giro di un anno. Questa della foto, più o meno, era la vista che i cittadini di Castelferretti, anziani, ragazzi, nonni con i nipotini, che stavano seduti in piazza della Libertà, magari sul muretto che delimitava la fontana con i pesci rossi, avevano nel 1980 del castello e della torre dell’orologio. Le foto non sono tali da consentire oggi a noi un giudizio troppo circostanziato sullo stato di conservazione del rosone e del quadrante, per quanto quella a colori sopra riprodotta, debitamente ingrandita sullo schermo del computer, evidenzi che i numeri romani si erano notevolmente deteriorati. Le foto, poi, nulla possono ovviamente mostrarci dell’altra faccia, per così dire, dell’orologio che non poteva ovviamente essere vista, se non dall’interno della torre: intendo dire del meccanismo. Ebbene, chi fosse allora salito all’interno della torre non lo avrebbe trovato, perché era stato smontato in occasione dei lavori edilizi e giaceva dimenticato in una baracca all’interno della corte del Castello. Sulla situazione complessiva dell’orologio Mario così annota nella sua seconda ricostruzione: Da quasi 11 anni vedevo l’orologio del paese fermo e il quadrante malandato, pressoché in frantumi, i numeri non si leggevano più, il rosone era a pezzi. Vedevo il macchinario in una baracca di lamiera in mezzo a tutti gli arnesi e cemento dei muratori che riparavano il fabbricato lesionato e reso inabitabile dal terremoto del 1972 [7].

La questione del recupero dell’orologio arrivò all’attenzione del Presidente del Consiglio di Quartiere, Ferminio Massi, e tramite lui a quella del Consiglio a seguito della disponibilità manifestata verbalmente da Mario di farsi carico dei lavori necessari, coinvolgendo, come attesta la seconda ricostruzione, per l’eventuale rifacimento dei componenti del meccanismo eventualmente deteriorati o mancanti, Lino Pierini (1915-1995): Mi venne l’idea di chiedere al Signor Lino Pierini, tornitore anche lui in pensione, se era disposto a fare i pezzi di tornitura. Mi disse subito di sì. Così finalmente si potevano sentire i tocchi delle campane dell’orologio come una volta. Prima di arrivare a dire qualcosa, per quanto possibile, sulle modalità e sulla data in cui il Consiglio fu inizialmente investito del tema del restauro dell’orologio, ricordiamo che Lino Pierini aveva lavorato presso il Cantiere Navale di Ancona ed era un’indiscussa autorità nei lavori al tornio. Nei primi anni ’80 era già in pensione, così come lo era Mario Barbanera, noto in paese come Mario de Roma, già macchinista delle Ferrovie dello Stato, conosciuto per la sua appassionata militanza politica e sindacale nelle file del Partito Comunista Italiano e della C.G.I.L.

Foto n. 4 Lino Pierini, un artista del tornio, con il figlio Patrizio (archivio personale di Patrizio Pierini)

Ci si deve interrogare su quando Mario effettivamente dichiarò la sua disponibilità. Entrambe le sue ricostruzioni la collocano “quasi 11 anni” dopo il terremoto. È probabile che al calcolo degli undici anni Mario (che non dimentichiamo scrive le sue ricostruzioni non prima del 1985, quando il lavoro è ormai terminato da più di un anno) sia arrivato risalendo dal 1983, che è l’anno di avvio dei lavori, fino al 1972, quando si verificò il terremoto. Si potrebbe pensare, dunque, tenuto conto di quel “quasi”, al 1982 avanzato. Questa collocazione cronologica, tuttavia, contrasta sia con la data di dimissioni da Presidente di Ferminio (11 febbraio 1982) sia con quanto Mario stesso scrive relativamente ai muratori ancora all’opera nel restauro dei locali comunali del castello. I lavori, come testimoniato da una comunicazione inviata al Sindaco Strazzi dall’ing. Piermattei dell’Ufficio del Genio Civile di Ancona in data 7 maggio 1981 (prot. n. 2856), si erano conclusi in data 12.2.1981. La disponibilità di Mario, quindi, se nasce come conseguenza della constatazione dell’abbandono dell’orologio nella baracca del cantiere mentre i lavori erano ancora in corso, non può che essere stata manifestata entro i primi mesi del 1981 o comunque, a voler retrocedere, successivamente al 10 ottobre 1980, quando Ferminio Massi viene eletto Presidente del Consiglio Circoscrizionale [8].

Mario riferisce nella prima ricostruzione di aver fatto presente la sua proposta ai compagni della sezione. Così, aggiungo io, la disciplina di partito richiedeva allora. Tra questi c’erano anche gli eletti al Consiglio di Quartiere: Marco Amagliani, Vinicio Bastianelli [9], Sauro Bucciarelli, il sottoscritto e naturalmente Ferminio.

Foto n. I consiglieri del P.C.I. nel corso della prima riunione del Consiglio di Quartiere – consiliatura 1980-1985: Sauro Bucciarelli, Vinicio Bastianelli, Marco Amagliani, Marco Molinelli eFerminio Massi (archivio personale di Marco Molinelli)

A quest’ultimo Mario era legato da una sincera amicizia, perché Ferminio era figlio di Armando Massi, che era stato militante comunista della sezione “A. Gramsci” e proprietario del grottino in cui questa aveva e ha ancora sede. La proposta, dopo essere stata valutata e condivisa in sezione, fu portata, scrive Mario, all’attenzione del Consiglio di Quartiere [10]:

Una sera in una riunione del mio partito, il PCI di Castelferretti, propongo ai miei compagni di rimettere l’orologio in funzione senza pretendere nulla. Subito venne accettata la mia proposta che, poi portata in Consiglio di Quartiere, fu modificata in questo modo:

– I numeri all’esterno dovevano essere fatti da Mario Pesarini, un pittore, bravissimo che abita a Bologna.

Io venivo scartato a priori.

Non sono mai riuscito a sapere chi avesse fatto questa proposta.

Io rimasi molto amareggiato. Non perché era stato proposto un pittore bravissimo, ma perché io che mi ero proposto di fare il lavoro, subito e bene, dovevo rinunciare.

Io non ricordo questa riunione di Consiglio della quale Mario scrive. E, del resto, le copie dei verbali in mio possesso di tutte le riunioni avvenute nel periodo della presidenza Massi (ottobre 1980 – febbraio 1982) non riportano, sia tra i punti all’o.d.g. sia tra le varie ed eventuali, traccia alcuna di questa discussione e dei suoi esiti. Probabilmente la proposta fu esposta in una riunione della commissione Lavori pubblici nella quale si prese atto della bontà dell’idea di Mario di recuperare al suo funzionamento l’orologio, restaurando sia il meccanismo sia il quadrante; qualcuno fece altresì presente che, per il restauro di quest’ultimo, v’era anche la possibilità di interpellare un rinomato pittore, nativo di Castelferretti, ma residente ormai da anni in Emilia-Romagna, Mario Pesarini. Il nome di Pesarini era importante e qualche componente della commissione o cittadino presente alla riunione può aver segnalato in quel frangente che Pesarini aveva restaurato tra il 1938 e il 1940 assieme a Dante de Carolis gli affreschi della chiesetta di Santa Maria della Misericordia presso il nostro cimitero e che tanti altri interventi lo avevano visto all’opera nelle chiese dell’Emilia-Romagna.

Mario, come attesta la sua ricostruzione, interpretò la proposta del nome di Pesarini come un tentativo di volerlo estromettere dall’impresa che proprio lui aveva ideato. Si trattava, tuttavia, di una proposta da verificare e che restò poi sostanzialmente tale. E non a caso lo stesso Mario scrive nella sua prima ricostruzione [11] che Massi gli disse che non [si] dovev[a] preoccupare né scoraggiare, perché lui si sarebbe impegnato a far[gli] fare tutto quello che era necessario per far funzionare l’orologio del paese. E continua così: Nel frattempo l’orologio veniva portato presso il salumificio Massi per essere ripulito, e intanto Ferminio pensava che non ci sarebbe stato più nessuno per ricaricare l’orologio; così studiava un sistema di carica automatica. Preparava 3 motori in fase 50H2, 0,4,H-P 380 VOLT -3 riduttori di velocità (28 volt) pulegge 5.

Ferminio prese, insomma, a cuore la questione, in particolare sul versante del meccanismo dell’orologio, e vi si impegnò subito con una passione più in linea con il suo essere castelfrettese che con il suo ruolo istituzionale di Presidente del Consiglio di un quartiere falconarese. Questo lo portò a qualche “incomprensione” con l’Amministrazione Comunale, in particolare con il Sindaco. Mario riporta nella sua prima ricostruzione uno scambio di battute tra il Presidente Massi e il Sindaco Strazzi:

Durante un incontro in Comune, fra Sindaco e Presidente del Consiglio di Quartiere Ferminio Massi furono dette queste cose:

  • Sindaco – L’orologio è del Comune e voi non potete fare quello che volete.
  • Massi. Il Comune è fatto ed è dei cittadini.

In seguito, Massi decise di mandare avanti i lavori.

Foto n. 5 Mario premia Ferminio Massi nel corso di una manifestazione presso il circolo A.R.C.I. “Rinaldo Quercetti” (archivio personale di Loredana Barbanera).

Mario dà di questa presa di posizione del Sindaco una lettura politica: Nel frattempo, i lavori si bloccavano perché il Sindaco di Falconara e i socialisti di Castelferretti non volevano che l’orologio fosse riparato e messo in funzione da persone che erano comunisti. Così passa quasi un anno per cose che, secondo me, erano fatte da persone poco intelligenti. Mi fermo alle parole che lo stesso Mario riferisce come dette dal Sindaco e rilevo che esse non facevano una piega. Ferminio, pur generosamente, facendo leva sul suo ruolo di Presidente del neoeletto Consiglio a suffragio diretto, aveva di fatto dato avvio ai lavori di restauro dell’orologio senza il via libera da parte del Comune, ente sovraordinato al Consiglio di Quartiere, e senza il nulla osta della Soprintendenza.

Foto n. 6 Rovaldo Strazzi, Sindaco di Falconara Marittima, mentre interviene nel corso della prima riunione del Consiglio di Quartiere-consiliatura 1980-1985 (archivio personale di Marco Molinelli)

Ciò detto, per quanto attiene ai socialisti di Castelferretti, se non relativamente alla vicenda dell’orologio, va rilevato che nei primi anni ’80 erano spesso e fortemente impegnati a livello locale a mettere in atto le scelte nazionali del partito volte al riequilibrio dei rapporti di forza con i comunisti (a Castelferretti, per inciso, il PCI raggiungeva, se non ricordo male, quasi il 47% dei voti) e pertanto a distinguersi dalle proposte che venivano dalla locale sezione comunista o che vedevano coinvolti suoi esponenti (e Mario lo era certamente).

Passò un anno. Nella seduta dell’11 febbraio 1982, così recita il verbale, Ferminio Massi rassegnò le dimissioni da Presidente perché gli impegni lavorativi non gli avrebbero consentito di svolgere compiutamente la sua funzione con l’arrivo ormai prossimo da parte del Comune delle funzioni delegate al Consiglio di Quartiere. I consiglieri accolsero le dimissioni, ma nello stesso tempo ringraziarono Ferminio per avere svolto il suo ruolo, così a verbale, con “una notevole efficienza operativa”. Massi non interruppe mai in seguito l’attenzione, anche economica, come vedremo, al restauro del meccanismo dell’orologio e alla automatizzazione della sua ricarica. Subentrai come Presidente il 4 marzo, quando ancora non avevo ventiquattro anni. E cercai subito di non perdere di vista la questione dell’orologio, intrecciando sul tema specifico un confronto e un rapporto positivo con l’Amministrazione Comunale, volto a far finalmente partire l’impresa suggerita da Mario e presa a cuore da Ferminio. Impiegai qualche mese: non era certo un’impresa facile. E poi, inutile dirlo per chi lo ha conosciuto, dovevo cercare di non perdere la disponibilità di Mario. E, a dire il vero, ci andai molto vicino, se egli nella sua prima ricostruzione così ricorda:

Nel frattempo, al Consiglio di Quartiere avveniva il cambio, a Massi subentrava Marco Molinelli.

Subito Molinelli metteva in discussione la riparazione dell’orologio al C.d.Q., poi mi comunicava che il quadrante doveva essere fatto da uno che decideva il Consiglio delle Belle Arti.

A questo punto io fui esplicito e dissi queste parole: “Non voglio sapere più niente, l’orologio fatelo voi”.

Dopo pochi mesi, Molinelli mi fermò in piazza e mi chiese che cosa occorreva per riparare il quadrante esterno dell’orologio-

Come Mario scrive, investii subito il Consiglio in merito al restauro che, avviato un anno prima da Ferminio con la rimozione dell’orologio dalla baracca nella corte del castello, si era però fermato di fronte alle obiezioni del Sindaco. Il Consiglio manifestò la volontà di procedere con il lavoro e sottolineò naturalmente che questo doveva avvenire nel rispetto delle indicazioni che la Soprintendenza avrebbe dato. Mario, come già successo dopo la discussione in commissione avvenuta un anno prima, interpretò le determinazioni del Consiglio come orientate a volerlo privare di poter realizzare quanto aveva proposto (il quadrante doveva essere fatto da uno che decideva il Consiglio delle Belle Arti). E così reagì affermando di volersi fare da parte.

La seconda ricostruzione ci aiuta a procedere oltre nel nostro racconto:

Nel frattempo, avveniva il cambio per questioni di lavoro del Presidente del Consiglio di Quartiere. Al posto di Massi Ferminio subentrava Molinelli Marco.

Questi portava avanti la procedura con la Giunta del Comune per iniziare i lavori.

E infatti si arrivava ad una prima risoluzione, cioè i lavori del rosone e del quadrante esterno, lavori che dovevano essere fatti con l’ausilio di un geometra addetto delle Belle Arti.

Ricordo che, per dar seguito alle decisioni del Consiglio, cercai di approfondire con i tecnici del Comune i passaggi necessari per avere dalle Belle Arti (altro modo per i non addetti ai lavori di chiamare la Soprintendenza) il via libera per il restauro sia del meccanismo dell’orologio sia del quadrante e del rosone, facendo in modo che potesse essere svolto dai cittadini castelfrettesi che si erano offerti come volontari. Questa fase mi impegnò per qualche mese.

Dagli archivi della Soprintendenza di Ancona è spuntato il testo di una relazione che io inviai all’allora Dirigente dell’Ufficio Urbanistico del Comune, architetto Isa Cioni, per esporre come si sarebbe inteso procedere e quali persone sarebbero state coinvolte.

Foto n. 7 Relazione del Presidente del Consiglio di Quartiere Marco Molinelli inviata alla Dirigente dell’Ufficio Urbanistico del Comune di Falconara Marittima, arch. Isa Cioni, in merito alle modalità e alle persone coinvolte nell’impresa del restauro dell’orologio (documento trasmesso dalla Soprintendenza ai Monumenti di Ancona)

Questa relazione fu poi inviata alle Belle Arti in allegato alla seguente comunicazione dell’Ufficio firmata dal Sindaco Rovaldo Strazzi (prot. n. 363 del 10 gennaio 1983) avente per oggetto “Pulizia orologio di Castelferretti”:

Facendo riferimento alla ns. del 9/11/1982 prot. 12910, si allega alla presente copia della relazione sui lavori in oggetto redatta dal Presidente del Consiglio di Quartiere di Castelferretti.

L’Ufficio Urbanistico, dunque, aveva avviato i contatti con la Soprintendenza già nel precedente mese di novembre. Di questa prima comunicazione prot. 12910 non c’era, tuttavia, traccia tra la documentazione inizialmente a mia disposizione. L’ho pertanto espressamente richiesta e la Soprintendenza me l’ha inviata con cortesia e premura. L’intestazione è appunto quella dell’Ufficio Urbanistico. La firma è ancora del Sindaco, Rovaldo Strazzi. L’oggetto riporta “Pulizia orologio Castelferretti” e il testo, molto breve, è il seguente:

Si comunica che questo Comune deve procedere alla manutenzione della meccanica e alla pulizia dell’orologio installato nella torre del Castello di Castelferretti.

Questo documento costituisce il vero e proprio avvio della pratica relativa all’orologio che l’Amministrazione Comunale intese aprire con l’organismo competente rappresentando che il Consiglio di Quartiere aveva già manifestato la volontà di procedere nel lavoro. La Soprintendenza chiese al Comune, probabilmente per le vie brevi, agli inizi di dicembre, come il Consiglio di Quartiere intendesse procedere: di qui, il 22 dicembre 1982, la mia relazione sopra ricordata al Dirigente dell’Ufficio Urbanistico. In essa scrivo, senza nominarli, di tre cittadini volonterosi pronti a intervenire per la sistemazione del meccanismo dell’orologio. Ne individuo, però, due in particolare: un orologiaio e un tornitore, la cui opera serviva per “il ripristino di pezzi mancanti o guasti”. L’orologiaio era Maurizio Benigni (1954), il tornitore il già menzionato Lino Pierini. Il terzo a cui facevo riferimento senza identificarlo nella funzione assolta in merito al lavoro sul meccanismo era lo stesso Mario Barbanera. Questi, infatti, costituirono il nucleo originario dei volontari impegnati nell’impresa, integrato poi nel suo sviluppo anche da Gino (1913-2000) o da Silvio (1916-1999) Vitali o forse da entrambi e probabilmente anche da Girolamo Pimpini (1925-2019) per la soluzione dello specifico problema tecnico della messa a regime del meccanismo di carica automatica (più avanti comunque tornerò sulla questione). Mario nelle sue ricostruzioni o nelle testimonianze rese a Scamacci per i suoi articoli li nomina tutti ad eccezione di Girò e di Maurizio (anche su questo aspetto tornerò più avanti).

Quanto ai lavori di restauro del rosone e del quadrante dell’orologio nella relazione feci riferimento a un “pensionato del paese o probabilmente a un pittore originario di Castelferretti ma residente in Romagna” che si era più volte detto disponibile a tale incarico. Il pensionato era di nuovo Mario Barbanera; il pittore, ovviamente, Mario Pesarini. Il nome di Pesarini era stato avanzato, come abbiamo ricordato, già al momento in cui, ancora sotto la presidenza di Ferminio Massi, in commissione era stata comunicata la proposta di Mario Barbanera di farsi carico del recupero dell’orologio. Nella relazione scrissi che il pittore aveva espresso più volte l’intenzione di dedicarsi a questa opera: di questa manifestazione di disponibilità aveva parlato chi in commissione sotto la Presidenza Massi o in Consiglio sotto la mia ne aveva fatto il nome. Fatto sta che detta disponibilità, per quel che ricordo, non si espresse mai con una lettera del pittore al Quartiere o al Comune. Né incontrai nel periodo della mia presidenza Pesarini o fui in contatto telefonico con lui. Il riferimento nella mia relazione al valente artista rimase, insomma, solo una sorta di atto dovuto per rappresentare la seconda opzione che, emersa nei lavori consiliari, era in attesa di essere verificata (di qui il probabilmente del testo della relazione). Certo è che per la completa messa a fuoco di questo particolare sarebbero stati utili i verbali delle sedute del Consiglio, che purtroppo non sono più presenti negli archivi comunali e di cui, relativamente a questo periodo, non ho copia tra le mie carte. Dunque, stando così le cose, se la Soprintendenza avesse dato il via libera, sarebbe certamente toccato a Mario, come poi avvenne, il compito di intervenire sul rosone e sul quadrante.

Alla comunicazione del Comune del 10 gennaio 1983, la Soprintendenza rispose nel mese successivo (Prot. n. 335 AN 428 – 4 febbraio 1983) con la nota a firma del Soprintendente dr. arch. M.Luisa Polichetti avente per oggetto “CASTELFERRETTI (AN) Orologio della Torre del Castello”:

Visto quanto precisato da codesta Amministrazione con la nota sopra citata, nulla osta per la rimessa in pristino dell’orologio della Torre.

Dopo l’acquisizione della mia relazione la Soprintendenza ufficializzò, dunque, il proprio nulla osta al ripristino del meccanismo dell’orologio. Si noti che si parla solo ed esclusivamente del meccanismo dell’orologio. Quanto al quadrante erano infatti necessari ulteriori approfondimenti. Avvennero tra marzo e aprile 1983 come testimonia la comunicazione, sempre a firma della Dirigente Polichetti, mandata dalla Soprintendenza al Comune in data 16 aprile 1983 (prot. n. 2102 AN 428) avente per oggetto “FALCONARA MARITTIMA (AN) – Lavori di manutenzione e pulizia orologio Torre Castelferretti”.

Foto n. 8 Relazione della Soprintendenza ai Monumenti a seguito del primo sopralluogo nel marzo o aprile 1983 (documento trasmesso dalla Soprintendenza ai Monumenti di Ancona)

Il sopralluogo confermò il via libera all’intervento sulla meccanica dell’orologio per altro già avviato (con la precisazione che esso andava tutto smontato negli elementi che lo costituivano; la prima pulizia fatta fare da Ferminio nell’anno precedente non era sufficiente, perché avvenuta probabilmente a meccanismo montato); sottolineò poi con forza la necessità di intervenire sul quadrante lasciato troppo tempo in stato di abbandono, ma si riservò un ulteriore approfondimento e una definitiva prescrizione, una volta che fosse stata installata l’impalcatura che avrebbe permesso di salire e di osservare lo stato dell’arte a distanza ravvicinata. In ogni caso il via libera era arrivato e si cominciava finalmente a guardare con fiducia alla realizzazione dell’impresa. Ne colgo una conferma indiretta in una lettera del 24 marzo da me inviata al Sindaco e all’Assessore al Decentramento con cui chiedo l’installazione di nuove panchine presso la Piazza della Libertà, di una fontanella a zampillo e di nuovi cordoli per le aiuole, sostenendo che con tali interventi, accompagnati dal prossimo ripristino dell’orologio del Castello e la costruzione del monumento dedicato alla Resistenza da parte dello scultore Giuliani [12], si pensa di dare un valido contributo alla valorizzazione del centro del paese.

Qualche settimana dopo invitai Mario a manifestare per iscritto e direttamente all’Amministrazione Comunale la propria disponibilità a svolgere il lavoro di recupero edilizio del quadrante. Tra le sue carte ve n’è traccia. Siamo arrivati al 26 aprile 1983.

Foto n. 9 Lettera del 26 aprile 1983 di Mario al Sindaco di Falconara Marittima per manifestare la sua disponibilità a eseguire i lavori di restauro del rosone e del quadrante (archivio personale di Loredana Barbanera)

È importante evidenziare come nella lettera Mario sottolinei che si sarebbe impegnato a svolgere il lavoro di ritinteggiatura del quadrante “sotto la guida della Soprintendenza ai Monumenti”. Una frase che, per chi ha conosciuto Mario e il suo carattere, e avendo a mente la sua reazione all’esito del passaggio in Consiglio della questione menzionata nella Ricostruzione n. 1 (vedi sopra), può sorprendere, ma manifesta che Mario aveva ben capito che occorreva seguire con scrupolo le indicazioni provenienti dall’organo ministeriale periferico competente perché potesse realizzarsi un lavoro serio e di qualità, anche se svolto da un volontario mosso da passione civica.

Nell’agosto 1983 fu finalmente montata l’impalcatura che avrebbe consentito di lavorare al restauro dopo che si fosse svolto il secondo sopralluogo richiesto dalla Soprintendenza per una più ravvicinata disamina dello stato di conservazione e la conseguente definizione dei necessari interventi. Questo avvenne, se non ricordo male, nel mese successivo. Ero presente assieme a Mario. In entrambe le ricostruzioni dell’impresa ritrovate tra le sue carte v’è il ricordo di questo secondo sopralluogo e dello scambio di considerazioni che Mario ebbe con il geometra venuto da Ancona [13]. Mario era intenzionato a rifare ex novo il quadrante, perché era evidente che non tutti i dodici numeri romani indicanti le ore erano collocati nella posizione corretta: in particolare il IX si trovava spostato leggermente più avanti di dove sarebbe dovuto essere nel tracciato della circonferenza su cui si susseguono i numeri delle ore e le tacche indicanti i minuti. La risposta del geometra fu perentoria: il quadrante andava rifatto così com’era, errori e imperfezioni compresi. E così avvenne, scrive Mario nella Ricostruzione n.1 ricordando subito: materiali, vernici, calce mi vennero indicati dal geometra e [furono] reperiti assieme a Molinelli Marco [14]. Di questo particolare, di come arrivammo ad avere gratuitamente (!) quanto occorreva ho sempre conservato un ricordo sufficientemente nitido. Ci muovemmo con in mano un foglio dattiloscritto su cui a macchina (l’Olivetti Studio 44 verde oliva che mio padre usava per la corrispondenza della sua officina di avvolgitore di motori elettrici e che era servita a me l’anno prima per la stesura della tesi di laurea) avevo riportato le prescrizioni del geometra della Soprintendenza dopo il secondo sopralluogo [15] che mi erano state comunicate, se non ricordo male, direttamente dalla Dirigente dell’Ufficio Urbanistico, arch. Isa Cioni. Tra le carte di Mario è ancora presente.

Foto n. 10 Foglio dattiloscritto contenente le indicazioni trasmesse dalla Soprintendenza sui lavori da eseguire e i materiali da utilizzare per il restauro del rosone e del quadrante dell’orologio. (archivio personale di Loredana Barbanera)

Ho sempre avuto vivo, dicevo, il ricordo di questo foglio dattiloscritto per la notevole quantità di termini tecnici che presenta e soprattutto per il particolare della resina epossidica con quell’aggettivo che allora mi incuriosì dal punto di vista etimologico. Foglio alla mano ci procurammo i materiali in esso indicati. A questo punto è d’obbligo per me ricordare l’aiuto decisivo prestato da Rolando Mengarelli (1931-2023) che mi indirizzò presso una ditta di Chiaravalle (non ne ricordo con precisione il nome, ma me ne suona in mente uno in linea con il vocabolario tecnico dell’edilizia), sita allora, a memoria, all’inizio di via Verdi o poco più avanti, venendo dalla strada ex statale per Jesi.

Foto n. 11 Rolando Mengarelli, nelle sue vesti di Assessore al Decentramento, mentre interviene nel corso della prima riunione del Consiglio di Quartiere – consiliatura 1980-1985 (archivio personale di Marco Molinelli)

Non fu spesa una lira, perché il titolare, saputo che mi mandava Rolando, volle generosamente contribuire alla causa dell’orologio. Il lavoro di restauro edilizio poteva così iniziare.

Chi aveva montato l’impalcatura non si era posto, però, il problema di come salirvi [16]. Mario lo risolse accedendo al piano della stessa attraverso una sorta di ponte costituito da una robusta asse di legno, su cui saliva passando da una apertura un po’ angusta e normalmente chiusa da un vetro, posta sulle scale interne che portano all’orologio: un’operazione, comunque, rischiosa e da ripetersi per più giorni e più volte al giorno, che tenne me e ovviamente sua moglie, finché durarono i lavori, in costante apprensione. Dell’asse, dell’impalcatura e di Mario su di essa restano le foto che corredano gli articoli che comparvero alcuni anni più tardi sui giornali locali per ricordare l’impresa e sui quali torneremo più avanti. Intanto mi piace rinviare il lettore alla fotografia in cui è riconoscibilissimo Mario sull’impalcatura, direi visibilmente soddisfatto per il lavoro pressoché ultimato.

Foto n. 12 Mario sull’impalcatura a lavoro pressoché ultimato (archivio personale di Loredana Barbanera)

I lavori sul rosone e sul quadrante furono completati, per quello che ricordo, nell’ottobre del 1983. Merita di far conoscere, a proposito di Mario sull’impalcatura, quanto il compianto Matteo Grifa ha voluto testimoniare a Loredana Barbanera:

Ricordo, molto nitidamente, l’impegno, in prima persona, di Mario Barbanera nel restauro dell’orologio di Castelferretti. Ero assessore al Comune di Falconara M.ma, e un giorno, in piazza a Castelferretti, Mario, con l’entusiasmo che lo contraddistingueva, salì sull’impalcatura per mostrarmi lo stato dei lavori, che stava portando avanti. E ricordo anche la sua felicità, mista ad orgoglio per quanto fatto, a restauro completato.

A questo iniziale periodo dell’impresa risale anche l’osservazione diretta delle campane poste in cima alla torre che battono, collegate all’orologio, le ore e i quarti: salii su insieme a Mario dall’ultimo piano della torre con una scala, uscendo all’aperto attraverso il lucernario. Ricordo che Mario mi dettò le date che si leggevano sulle campane che trascrissi su un foglio che poi gli consegnai.

Foto n. 13 Le due campane: la grande batte le ore, la piccola i quarti (archivio fotografico di Sergio Badialetti)

Ho a lungo pensato che forse queste erano proprio le date (1787 per la campana grande, 1848 per la piccola) che Scamacci riportò nel 1987 nel suo primo articolo sul restauro dell’orologio, riferitegli presumo proprio da Mario. Poi, però, grazie a Sergio Badialetti che mi ha riferito di essere salito anche lui sulla torre, nel 2012, e che soprattutto ha scattato in quell’occasione diverse foto delle due campane, sono giunto alla conclusione che la data 1787 sia frutto di un errore o tipografico nella stampa del giornale o di annotazione da parte di Scamacci delle parole di Mario o di lettura da parte di Mario stesso al tempo della nostra sortita in cima alla torre nell’ottobre 1983. Infatti, la campana grande, come ben mostra la foto scattata da Sergio, porta la data del 1878, mentre la piccola effettivamente è da assegnarsi al 1848.

Le foto che Sergio mi ha messo a disposizione, oltre a evidenziare nelle due campane immagini sacre (la Vergine Maria, il Crocefisso, un Vescovo o forse un Papa), riportano le indicazioni dei nomi dei due rispettivi fonditori e, quella più piccola, di quello che forse ne è stato il benefattore committente.

La campana grande

Foto n. 14 Particolare della campana grande (archivio fotografico di Sergio Badialetti)

riporta la seguente indicazione:

VINCENZO BALDINI / DI / SASSOFERRATO / FONDITORE / IN / MACERATA / MDCCCLXXVIII

Come è possibile riscontrare in un sito specializzato e ricchissimo di informazioni sia storiche sia tecniche sulla ingegneria e campanologia creato dall’Ing. Arch. Michele Cuzzoni di Pavia , i Baldini [17] (Vincenzo e Luigi)  erano una famiglia di fonditori storici marchigiani, per la precisione di Sassoferrato con stabilimento in Macerata, operante nel XVIII-XIX secolo. Il sito ci informa che Vincenzo Baldini in particolare produsse la campana seconda per la parrocchia  di San Tommaso Apostolo di Offagna (1868), la terza campana per la parrocchia di San Pietro Apostolo di Castelfidardo (1878; lo stesso anno, dunque, della campana più grande del nostro castello), la campana maggiore per il  duomo di Cagli (1885).

Sulla campana piccola

Foto n. 15 Particolare della campana piccola (archivio fotografico di Sergio Badialetti)

leggiamo invece:

GIUSEPPE / DI / GIORGI / FONDITORE / IN / ANCONA

Il sito di campanologia ci informa che ad Ancona operò nell’Ottocento il fonditore Giuseppe de / di Giorgi II [18] (un omonimo fonditore aveva lavorato nel Seicento) al quale spetta la fusione tra le altre di ben 18 campane (tra esse nel 1823 quella maggiore della Torre dell’Orologio di Ancona in Piazza del Plebiscito, comunemente chiamata Piazza del Papa). Su questa campana

Foto n. 16 Particolare della campana piccola (archivio fotografico di Sergio Badialetti)

compare poi la scritta che ci consente con sicurezza la datazione e che sembra anche indicare (ma le foto a mia disposizione non consentono una lettura sicura: tra parentesi quadre e con punto interrogativo le parole o le lettere delle stesse che ho cercato, ma senza alcuna certezza, di ricostruire) forse il nome del benefattore-committente che si fece carico della spesa:

DON SANTE SOR[INI?] / RETTORE / [CASTELLO? FERRETTI?] / A. 1848

Se in futuro ci sarà modo di accedere di nuovo in cima alla torre [19] e di osservare ancora le campane, si potrà forse arrivare a una lettura completa di quanto è scritto sulla campana minore.

Riprendiamo ora la narrazione dell’impresa di Mario. I lavori, al termine del restauro del rosone e del quadrante, si concentrarono esclusivamente sul meccanismo dell’orologio. Mario, a tal proposito, nella Ricostruzione n. 2 scrive: Debbo anche ricordare che, data la usura dell’orologio, occorreva aumentare il peso dei contrappesi (ora) (carica) (quarti). Così feci fondere dai fratelli Felce il piombo. Essi si sono prodigati subito e con molto interesse. Ecco una foto dei contrappesi.

Foto n. 17 I famosi tre contrappesi. Visibile sotto ognuno di essi il contatto magnete di prossimità: quando il contrappeso metallico sfiora il sensore, si chiude il circuito elettrico e si attiva il comando di risalita per la carica (archivio personale di Loredana Barbanera)

Anche i fratelli Quinto (1932-2020), Mirello (1933-2008) e Luigi, detto Gigetto, Marinelli (Felce è il soprannome paesano della famiglia) entrano pertanto tra coloro che contribuirono all’impresa. Loredana Barbanera mi comunica a tal proposito che Massimo, il figlio di Luigi, gli ha riferito che il padre ricorda ancora di aver svolto il lavoro richiesto da Mario.

Nella fase dell’intervento volto a far ripartire l’orologio i tre compaesani, Mario, Lino Pierini e l’orologiaio Maurizio Benigni [20], che avevo, senza nominarli, indicato nella mia relazione sopra menzionata, furono quasi ogni giorno di fronte al meccanismo per tutti i controlli e le verifiche necessari. A distanza di tempo Maurizio, che allora aveva meno di trenta anni o giù di lì, interpellato oggi da Loredana Barbanera, conferma questo mio ricordo e aggiunge di essere stato più volte chiamato da Mario in merito all’orologio, anche nel periodo successivo ai lavori di restauro, fino al 1989. Mario, a onore del vero, nelle sue due Ricostruzioni non lo cita, forse, credo,  perché Maurizio non fu direttamente coinvolto come Pierini o Vitali nell’operatività del restauro vero e proprio (pulire, riparare gli ingranaggi, rifare i pezzi deteriorati, etc.) o della difficile messa a punto della carica automatica; il contributo di Maurizio, tuttavia, è stato importante in quanto nel gruppo di volontari messosi a disposizione, egli era quello in possesso della specifica competenza in materia di orologeria.

L’orologio tornò in funzione, ma andava risolto il problema della carica che doveva essere automatica, dal momento che quella manuale, a causa di modifiche apportate nei lavori di restauro edilizio che erano stati svolti dopo il terremoto, appariva, inoltre, non più praticabile. Pena il fermarsi dell’orologio, l’impegno della carica manuale avrebbe, infatti, comportato diversi turni, di cui uno anche a notte fonda. Nella Ricostruzione n. 1 Mario ricorda che Ferminio Massi ebbe subito chiara la necessità di approntare un sistema di carica automatica dell’orologio: La prima cosa che pensò era quella della carica dell’orologio, perché erano state fatte delle modifiche alla muratura del fabbricato e per questo l’addetto alla carica doveva alzarsi anche di notte per ricaricare. Così fece preparare 3 motori trifase 180 volts, 0,4 HP, 3 riduttori, la messa a punto della carica automatica e la suoneria. Ecco una testimonianza fotografica con Mario davanti al meccanismo dell’orologio con in evidenza i tre motori elettrici utilizzati per la carica automatica.

Foto n. 18 Mario davanti al meccanismo dell’orologio. Si notino i tre motori elettrici indispensabili per la carica automatica (archivio personale di Loredana Barbanera)

Mario scrive che circa sessanta giorni si persero in varî e vani tentativi (ruote libere, catene), fino a quando non prese campo l’idea di ricorrere a un’elettrocalamita. Per procurarsela Mario andò dall’elettrauto Alfio Cimoni (1934–2012), dal quale si fece dare un motorino di avviamento di una Fiat 500, a cui mio padre, Giordano Molinelli (1933-2021), un’autorità nel campo dei motori elettrici, apportò le modifiche per portarne l’indotto da 12 a 220 volt. Intanto Gino Vitali (Gino, scrive appunto Mario) trovò una frizione adeguata alla carica [21]. La soluzione dell’elettrocalamita era giusta, ma, sembra di capire, ne serviva un tipo più adeguato. E a questo punto tornò in campo di nuovo Ferminio Massi con la sua generosità e il suo impegno civico. Mario scrive di averlo contattato e che Ferminio gli fece vedere il tipo di elettrocalamita utile allo scopo mostrandogli quella che serviva per il funzionamento del compressore dell’aria condizionata della sua auto: era la soluzione giusta e Ferminio si impegnò personalmente per l’acquisto abbastanza costoso delle elettrocalamite. Mario conclude il suo scritto con queste parole: E così fu, ma si doveva attendere ancora altri 4 o 5 mesi [22]. Lino Pierini, da artista del tornio, ricorda Mario nella Ricostruzione n. 2, fu chiamato a un ultimo sforzo: si prodigava subito con scrupolosa precisione a fare i tre perni conici con relative viti. Faceva tutte le chiavette agli ingranaggi, i perni per le leve dei martelli con relative boccole. Applicava gli ingranaggi alle 3 relative elettrocalamite per la carica automatica e tanti altri pezzi occorrenti alla messa in opera dell’orologio.

Il riferimento cronologico ai quattro o cinque mesi che si resero necessari dopo la soluzione prospettata da Ferminio in merito alle elettrocalamite ci porta decisamente ad affermare che l’impresa voluta da Mario si concluse nella primavera del 1984. Prendendo, infatti, come data di inizio dei lavori sul meccanismo dell’orologio la fine di ottobre 1983 e sommando i primi sessanta giorni andati spesi nella prima fase di studio e realizzazione della carica automatica ai quattro o cinque mesi per l’acquisto e l’installazione delle elettrocalamite individuate da Ferminio si arriva ad aprile-maggio 1984. Certo le ricostruzioni dell’impresa che Mario fece a distanza di qualche anno non possono considerarsi cronologicamente precise al millimetro, ma sono certamente attendibili.

Alla fine di dicembre del 1983 o nei primissimi giorni del seguente mese rassegnai le mie dimissioni da Presidente e da Consigliere della Circoscrizione in quanto, alla ripresa delle lezioni dopo le vacanze natalizie, lunedì 9 gennaio 1984, sarebbe iniziata la mia carriera di docente, con una supplenza in quel di Luino sul Lago Maggiore. Il Consiglio elesse Presidente, al mio posto, Sauro Bucciarelli (1944-2021).

L’opportunità presentatasi improvvisamente di cominciare ad insegnare interruppe la mia attività di Presidente e mi sembra di poter dire con sicurezza che me ne andai senza che l’intervento sull’orologio fosse giunto a definitivo compimento con l’avvio della carica automatica.

Alla conclusione che questo possa essere verisimilmente avvenuto nei mesi di aprile-maggio 1984 porta indirettamente anche un altro documento ritrovato tra le carte di Mario: il Presidente del Quartiere di Falconara Alta-Barcaglione, Sauro Vecchi, gli tributa un caloroso ringraziamento per “il valente e disinteressato impegno prestato per il ripristino della funzionalità” dell’orologio del locale Castello di piazza Carducci. La data è quella dell’11 agosto 1984. Eccone la foto.

Foto n. 19 Lettera di ringraziamento del Presidente del Consiglio di Quartiere di Falconara Alta, Sauro Vecchi, indirizzata a Mario per avere collaborato al ripristino dell’orologio pubblico di piazza Carducci (archivio personale di Loredana Barbanera)

Debbo alla cortesia del sig. Adriano Malatesta di Falconara Alta, ferroviere oggi in pensione e collega di Mario, la precisazione che il contributo da questi portato era stato quello di avergli indicato un buon tornitore di Castelferretti [23] per il rifacimento di un ingranaggio ormai fuori uso di una lancetta dell’orologio pubblico di Falconara Alta. Questo era accaduto nella primavera del 1984, ricorda il sig. Malatesta: nel mese di aprile o in quello di maggio, quando Mario aveva da poco ultimato la sua impresa. C’è poi un ulteriore documento, e questa volta proprio del Consiglio di Quartiere del nostro paese, che conforta nella ricostruzione cronologica prospettata. Si tratta di una lettera (che ho potuto leggere in copia) che il Presidente Bucciarelli inoltra in data 6 settembre 1984 all’Assessore al decentramento e all’Ufficio Tecnico del Comune di Falconara Marittima. Vi si legge:

Il C.d.Q. Castelferretti, nella riunione del 4.9.84, ha preso atto con soddisfazione che i lavori, a suo tempo commissionati a cittadini volontari, per il ripristino del vecchio Orologio del Castello, sono stati ultimati. Si rende pertanto necessario proteggere al più presto le delicate apparecchiature meccaniche ed elettriche, dagli inconvenienti più vari.

Il Consiglio delibera, pertanto, all’unanimità di porre in opera due armadi di protezione in legno e vetro realizzabili dalle maestranze comunali.

Per quanto riguarda la spesa presunta, di circa 500/600 mila lire, si propone di utilizzare il fondo messo a disposizione dei Consigli di Quartiere.

La richiesta dei due armadi di protezione in legno e vetro sarà sicuramente avvenuta a seguito della progressiva osservazione e cura del meccanismo di carica automatica con le sue delicate componenti meccaniche ed elettriche. Mario, verificata nei mesi tra giugno e agosto la necessità di proteggerle, ne parlò, possiamo pensare, con il Presidente Bucciarelli, che svolse gli approfondimenti sui costi e sulla fattibilità della realizzazione degli armadi da parte delle maestranze comunali che lo portarono a proporre la deliberazione al Consiglio e a indicare a Comune e a Ufficio Tecnico la spesa presunta. Ecco la foto dell’armadio.

Foto n. 20 Mario davanti al meccanismo dell’orologio protetto dall’armadio a vetri chiesto al Comune dal Presidente del Consiglio di Quartiere, Sauro Bucciarelli, nel settembre 1984 (archivio personale di Loredana Barbanera)

Non so perché, ma dietro al riferimento alle maestranze comunali, sulla base dell’esperienza fatta durante la mia presidenza, vedo l’intelligenza, la creatività, la passione civile di un amico e compaesano, allora dipendente comunale, Renato Moschini (1944-2022). La mia è, naturalmente, una pura ipotesi, che non si fonda su nessun documento, su nessuna testimonianza, ma che fa leva sulla disponibilità sempre pronta di Renato per la cura della cosa pubblica (chi, tra quanti c’erano allora, non ricorda la sua costante manutenzione e pulizia della fontana con i pesci rossi posta in mezzo alla piazza?).

 2. Mario e la manutenzione dell’orologio dopo il restauro: 1985-1989.

Fin qui ho raccontato la storia del ripristino dell’orologio dopo il danneggiamento patito nel 1972 a causa del terremoto. Ho fatto ricorso alla documentazione presente tra le carte di Mario, all’apporto documentale proveniente dalla Soprintendenza ai Monumenti, alla mia memoria e a qualche copia di lettere e corrispondenza del Comune e del Quartiere che mi è stato possibile reperire. Non ho, invece, trovato notizia del lavoro svolto da Mario e dai suoi collaboratori nello spoglio delle annate del “Corriere Adriatico” relative al periodo 1981-1984 entro cui si situano i fatti raccontati.

Va, peraltro, rilevato che in generale le notizie di questi anni relative a Falconara, alla sua vita amministrativa, all’attività dei suoi quartieri sono rarissime. Frequentemente si legge di qualche incidente stradale, specie se con esito mortale. Frequenti sono invece gli articoli sull’aeroporto che andava avviandosi tra tanti problemi, non sempre di matrice falconarese. Nello specifico va poi rilevato che il ripristino dell’orologio non aveva certo bisogno di essere portato a conoscenza a mezzo stampa, perché, svolto all’esterno e all’interno della torre del Castello, di fronte ai tantissimi anziani e giovani che popolavano da mattina a sera la piazza antistante, avveniva, per così dire, sotto gli occhi di una comunità castelfrettese ancora molto centrata su sé stessa e sulla sua quotidianità.

Potrebbe sembrare paradossale (e vedremo che le cose non stanno in questi termini), ma la stampa locale si interessò del lavoro di Mario & c. solo tra il 1987 e il 1991. Tre articoli appaiono quando Mario è ancora in vita, il quarto quasi due anni dopo la sua morte. Tre sono del compianto Stefano Scamacci che curava con infaticabile impegno in quegli anni la cronaca falconarese del “Corriere Adriatico”, uno a firma di Daniela Giacchetti, uscito su “La Gazzetta di Ancona”. Va per inciso notato che dal 1986 i giornali locali erano diventati tre (a “il Resto del Carlino” e al “Corriere Adriatico” si affiancò per qualche anno proprio “La Gazzetta di Ancona” del gruppo Longarini) ed era di conseguenza cresciuto, in questo nuovo clima di concorrenza giornalistica,  il numero degli articoli relativi all’ambito comunale falconarese (dato evidentissimo per quanto attiene al “Corriere Adriatico”).

Esaminerò questi articoli ovviamente secondo la progressione cronologica.

Il primo di Scamacci è del 20 gennaio 1987:

Foto n. 21 Articolo di Stefano Scamacci sul “Corriere Adriatico” del 20 gennaio 1987 (archivio personale di Loredana Barbanera)

L’articolo, tutto impostato, e già nel titolo, con i verbi al passato prossimo, celebra il fatto che l’orologio è tornato a scandire le ore, come se l’impresa che lo aveva messo di nuovo in funzione si fosse da poco conclusa nel corrente anno 1987. Sono spie evidentissime di tanto anacronismo il passaggio l’orologio era stato danneggiato dagli eventi sismici del 1972 e per quindici anni circa [24] era rimasto abbandonato a sé stesso e lo stesso occhiello Castelferretti, dopo i restauri premesso al titolo. Vi leggiamo del ruolo importante di finanziatore dell’impresa svolto da Ferminio Massi [25], indicato come il Presidente del Consiglio di Quartiere, proprio come se fosse ancora in carica, dell’interessamento dell’Amministrazione Comunale e della Soprintendenza presentato come recente (da qualche tempo qualcosa si è mosso), ma avvenuto, si è visto, tra il 1982 e il 1983, del passaggio dalla carica manuale a quella automatica, delle due campane con relativa datazione che battono rispettivamente le ore e i quarti, del lavoro svolto dai tre artefici Mario Barbanera (noto a tutti in paese come Mario de Roma), il tornitore Lino Pierini e Silvio Vitali [26]. Ci si aspetterebbe che un articolo come questo fosse del 1984, scritto a impresa da poco conclusa. È invece di tre anni dopo. Credo che l’articolo abbia avuto un ispiratore-committente e che questi sia stato proprio Mario che sentiva in quel momento l’esigenza che si ricordasse pubblicamente il lavoro svolto tre anni prima. Lo penso facendo leva su un documento conservato tra le sue carte, una lettera datata 6 febbraio 1987 e indirizzata all’allora Presidente del Consiglio di Quartiere. Eccone le foto:

Foto 22 e 23 Lettera di Mario al Presidente del Consiglio di Quartiere di Castelferretti del 6 febbraio 1997 (archivio personale di Loredana Barbanera)

Il testo prende le mosse dall’incarico di manutenzione e cura dell’orologio ricevuto (o, forse, sarebbe meglio dire confermato) nel 1985 dal nuovo Presidente del Consiglio di Quartiere, insieme a una dichiarazione verbale di impegni che questo incarico sarebbe stato retribuito dal Comune in analogia con quanto avveniva nel territorio falconarese per altri ‘custodi’ di pubblici orologi. Mario ricorda che di fatto, da quando aveva nel 1984 terminato il lavoro di restauro dell’orologio, ne era divenuto il manutentore. Per questo aveva continuato a detenere, autorizzato, una copia delle chiavi di accesso all’edificio. Con l’avvio della mostra delle opere di Mario Pesarini ospitata nei locali della Circoscrizione le chiavi in suo possesso erano diventate inservibili, perché era stata cambiata la serratura; non avendo avuto una copia delle nuove chiavi, Mario chiede se questo significhi che è decaduto dall’incarico o se piuttosto non sia riconducibile a una mera dimenticanza. Sollecita pertanto una risposta, sottolineando che, siccome l’orologio è fermo, mai vorrebbe che qualcuno gli imputasse di essere inadempiente all’incarico ricevuto.

La lettera è del 6 febbraio 1987. L’orologio è fermo. Dal momento in cui si avvia la mostra di Pesarini, vale a dire più o meno dal 20 dicembre 1986 (questa è la data dell’inaugurazione) Mario non ha più le chiavi giuste per accedere all’edificio della Circoscrizione e manutenere il meccanismo dell’orologio. La mostra termina il 10 gennaio del nuovo anno [27]. Dieci giorni dopo esce l’articolo di Scamacci. Io penso che Mario contattò Scamacci e gli fornì gli elementi utili perché questi potesse pubblicare un articolo sul restauro e il ripristino del funzionamento dell’orologio proprio in un momento in cui questo era ritornato di nuovo ad essere fermo ormai da molti giorni e lui, il promotore e realizzatore dell’impresa di qualche anno prima, cominciava a temere di essere stato rimosso dall’incarico di suo custode, senza averne ricevuta preventiva notizia. Quella dell’articolo, diciamo così, potrebbe essere stata la prima strada, molto indiretta, imboccata da Mario per richiamare l’attenzione della Circoscrizione sulla strana situazione che lo riguardava. Passarono poco più di due settimane e Mario si decise a prendere una nuova strada, quella della richiesta ufficiale di chiarimenti al Presidente del Consiglio di Circoscrizione tramite, appunto, la lettera del 6 febbraio 1987 che abbiamo sopra riprodotto ed esaminato.

Questa lettera fu oggetto di discussione da parte dell’organo di decentramento castelfrettese in una seduta tenutasi nel corso dello stesso mese di febbraio. Anche in questo caso sarebbe stato interessante leggere il verbale della seduta. Ci soccorre, tuttavia, il secondo articolo che Stefano Scamacci dedicò a Mario e all’orologio, uscito sul “Corriere Adriatico” l’8 settembre 1989 con il titolo Orologiaio per amore, ma non per quattrini:

Foto n. 24 Articolo di Stefano Scamacci sul “Corriere Adriatico” dell’8 settembre 1989 (archivio personale di Loredana Barbanera)

Nell’articolo si fa riferimento a una lettera che Mario scrisse al Presidente Vici nella quale lamentava il fatto di non avere ancora ricevuto alcun emolumento per l’incarico affidatogli due anni prima e che ancora continuava a svolgere. Essa fu portata all’attenzione del Consiglio della Circoscrizione nel corso di una seduta nel febbraio 1987, trovando l’unanime riconoscimento da parte dei sei consiglieri di maggioranza (DC-PSI-PSDI-PRI) e dei cinque di opposizione (PCI) della validità delle ragioni che vi erano esposte. Si tratta (a non volere prendere in considerazione l’ipotesi, che a me pare poco fondata, di due distinte lettere e di due distinte riunioni consiliari nello stesso mese) quasi certamente della lettera datata 6 febbraio 1987 che sopra abbiamo preso in esame. Scorrendo il “Corriere Adriatico” dell’annata 1987 leggiamo in data domenica 8 febbraio l’articolo Una sottoscrizione per la stazione FS di Castelferretti che rende conto di una riunione della Circoscrizione avvenuta due giorni prima (l’altro ieri, leggiamo), cioè il 6 febbraio, la quale aveva avuto come tema dominante il destino della stazione FS del paese che dal 1° gennaio era stata ridotta al rango di fermata impresenziata, ovvero senza più personale in servizio. La lettera porta la stessa data di questa riunione del Consiglio. Possiamo pensare che Mario abbia consegnato nel corso della giornata la lettera al Presidente per cercare di avere la sera stessa dal Consiglio un pronunciamento in merito alla sua richiesta se ancora avesse potuto ritenersi il custode dell’orologio al cui recupero si era tanto prodigato.

Mario, invero, a distanza di tempo e sulla spinta della vertenza annunciata contro il Comune, nell’articolo dell’8 settembre 1989 ricorda la lettera come finalizzata a manifestare il suo disappunto per la mancata corresponsione della somma di Lire 80.000 promessagli nel 1985. Abbiamo visto, invece, che il riferimento al rimborso mensile vi appare senza alcuna espressa rimostranza in merito al fatto che non venisse ancora erogato dal Comune di Falconara M.ma, ma semplicemente nei termini di una proposta, poi accettata, fatta a Mario dapprima dal Presidente della Circoscrizione e successivamente ribaditagli anche dal Vice Presidente. È da ritenere che nella riunione del 6 febbraio 1987 i consiglieri abbiano voluto dare a Barbanera non solo assicurazione che il suo ruolo di custode dell’orologio non era in discussione, ma anche sottolineare che era giusto che il Comune provvedesse a riconoscergli finalmente l’emolumento promesso.

La copia della nuova chiave dell’edificio circoscrizionale gli fu certamente data, la questione della chiave si chiarì e Mario continuò a svolgere l’incarico di custode dell’orologio con passione e orgoglio, cercando sempre di tenere vivo il ricordo dell’impresa, come mostra anche un articolo uscito su “La Gazzetta di Ancona”. La riproduzione trovata tra le carte di Mario non ne riporta la data, ma, prima grazie alla sua autrice, Daniela Giacchetti, sono riuscito a determinare una collocazione almeno nell’anno, il 1988, poi, per merito della compaesana prof.ssa Sulmana Ramazzotti (che ha una preziosa raccolta di numeri del quotidiano avendovi allora scritto e curato la cronaca falconarese) sono arrivato a precisare anche il mese e il giorno della pubblicazione. L’articolo uscì il 1° maggio 1988. Eccolo di seguito riprodotto:

Foto n. 25 Articolo di Daniela Giacchetti su “La Gazzetta di Ancona” del 1° maggio 1988 (archivio personale di Loredana Barbanera)

Rispetto all’articolo di Scamacci del 1987 non c’è alcun anacronismo. Si ricorda che l’impresa risale al 1983 e l’attenzione è molto, o forse quasi esclusivamente, centrata sul tema della carica automatica. Non ci sono riferimenti all’Amministrazione Comunale, alla Soprintendenza ai Monumenti e neppure al Consiglio di Quartiere. A tal riguardo si cita come finanziatore privato Fermignio (sic!) Massi, ma senza ricordarne anche il ruolo precedentemente ricoperto di Presidente dell’organo di decentramento. Non si fanno i nomi dei collaboratori Pierini e Vitali. La giovanissima giornalista appare molto colpita da come si fosse giunti a realizzare la carica automatica, passando dalle normali catene della ciclistica alle frizioni giapponesi e ai reattori di velocità di meccaniche certamente più evolute, in un crescendo di sperimentazione e verifiche definito casereccio perché approntato con i mezzi a portata di conoscenza e di mano di Mario e dei suoi collaboratori. L’autrice, allora molto giovane e digiuna di meccanica e orologeria, ricevette senz’altro da Mario le tante informazioni, anche tecniche, che inserisce nel testo senza averne ovviamente abituale frequentazione: ecco allora che i riduttori di velocità certamente presenti nel sistema di carica automatica dell’orologio possono diventare per lei i “reattori di velocità” (sempre che lo sbaglio non sia da imputare al tipografo del giornale!).

Il riferimento alle frizioni giapponesi e ai riduttori di velocità potrebbe forse essere di aiuto per sciogliere il dubbio circa l’identità del Vitali che sorge naturalmente alla lettura prima della Ricostruzione n. 1 di Mario dove si dice che nel frattempo Gino Vitali trovava una frizione adatta alla carica, poi dell’articolo del 20 gennaio 1987 di Stefano Scamacci nel quale leggiamo il nome di Silvio Vitali. Chi dei due fratelli? A considerare queste ultime sottolineature dell’articolo della Giacchetti così tecniche e l’accenno alla frizione come componente della carica automatica, sembra preferibile optare per Gino che, lavorando come assistente di laboratorio presso l’Istituto Nautico di Ancona, aveva certamente esperienza professionale specifica. Può darsi che, elencando nel 1987 a Scamacci il nome dei propri collaboratori di qualche anno prima, la memoria abbia tradito per un attimo Mario facendogli collegare il cognome Vitali non a Gino, ma a Silvio. Detto questo, mi incombe l’obbligo di precisare che il figlio di Gino, interpellato da Loredana Barbanera, riferisce di non sapere nulla circa la collaborazione del padre alla soluzione del problema della carica automatica dell’orologio, ma Renzo Amagliani mi ha riferito di ricordare di avere visto con certezza Gino, e non Silvio, intento con Mario e Lino a mettere mano al meccanismo dell’orologio all’interno della torre del Castello. Quindi quanto affermato da Mario nella sua Ricostruzione in merito al coinvolgimento di Gino Vitali trova una conferma da parte di un’altra fonte: possiamo riconoscere, dunque, che Gino ebbe parte nell’impresa.

Foto n. 26 Gino Vitali, che “trovò una frizione adatta alla carica” (archivio personale di Gabriele Vitali)

Nello stesso tempo, però, non possiamo essere troppo sicuri che Mario, riferendo a Scamacci nel 1987 della partecipazione di Silvio, sia davvero incorso nel lapsus sopra ipotizzato, perché Patrizio Pierini, da me richiesto di un ricordo dell’impresa, mi ha detto di avere visto discuterne, a volte anche a casa sua, Mario, “il più interessato e il più ottimista”, suo padre Lino, “che si era offerto di costruire al tornio degli ingranaggi e altri pezzi che sarebbero stati introvabili sul mercato”, Silvio Vitali “addetto ai calcoli e alle proporzioni dei pezzi da fare”, Girò “che dava le idee” e che secondo Patrizio ha contribuito alla realizzazione di qualche pezzo [28]. Patrizio è certo che il Vitali dedito ai calcoli e alle proporzioni dei pezzi che poi Lino avrebbe realizzato al tornio fosse proprio Silvio, quello tra i due fratelli, mi riferisce, “non sposato”.

Foto n. 27 Silvio Vitali, “addetto ai calcoli e alle proporzioni dei pezzi da fare” (archivio personale di Gabriele Vitali)

Sarà, per così dire, un po’ salomonica la mia opinione, ma, a questo punto della questione, non me la sentirei proprio di escludere che entrambi i fratelli siano stati coinvolti nell’impresa, sia pure diversamente: Silvio nel momento del rifacimento dei pezzi, Gino in quello della laboriosa messa a punto della carica automatica.

Nel 1989 Mario si occupava ancora della cura dell’orologio: tra le sue carte troviamo, infatti, la copia di un buono di ordinazione datato 25 agosto per l’acquisto di 25 metri di cavetto di acciaio per l’orologio del castello di Castelferretti.

Nel settembre dello stesso anno, non avendo ancora ricevuto l’emolumento che gli spettava per la cura dell’orologio, avviò una vertenza sindacale nei confronti del Comune di Falconara M.ma. Ne abbiamo notizia nell’articolo di Stefano Scamacci già sopra riprodotto e in parte utilizzato per i riferimenti che contiene alla lettera del febbraio 1987 e alla riunione consiliare della Circoscrizione dello stesso mese.

L’articolo fu pubblicato in data venerdì 8 settembre 1989. Come ivi ricordato attraverso le parole di Mario, dal mese di febbraio era in carica una nuova Giunta PCI-PSI che aveva preso il posto di quella quadripartito DC-PSI-PSDI-PRI nominata quattro anni prima dal Consiglio Comunale a seguito delle nuove elezioni tenutesi in primavera. Mario, che pure sul piano politico era certamente contento di rivedere il PCI al governo del Comune, rivela una certa delusione per il fatto che neppure la nuova giunta aveva ancora provveduto a tributargli il riconoscimento per la cura che ormai da anni stava dedicando all’orologio del Castello.

Non era, ovviamente, la sua una battaglia di soldi; all’orologio, come il titolo dell’articolo ben sintetizza, si era dedicato per amore. La vertenza traeva origine dal sacrosanto desiderio di vedere rispettato e considerato il suo lavoro, allo stesso modo in cui era rispettato e considerato quello di altre persone che avevano cura degli orologi pubblici a Falconara e ricevevano un rimborso: in sostanza ciò che esigo – dice Mario nell’articolo – è la corresponsione regolare di tutte le mie spettanze, come a tutt’oggi avviene per gli altri addetti alla manutenzione degli orologi cittadini: quello sovrastante la scuola elementare di piazza Mazzini e quello del Castello di Falconara.

Mario aveva davanti a sé ancora pochi mesi di vita: la malattia manifestatasi nel successivo mese di dicembre 1989 lo portò alla morte alla fine di marzo dell’anno dopo.

3. L’orologio dopo la morte di Mario: le preoccupazioni del novembre 1991

Il 16 novembre 1991, sempre a firma di Stefano Scamacci, esce  sul “Corriere Adriatico” il seguente articolo:

Foto n. 28 Articolo di Stefano Scamacci sul “Corriere Adriatico” del 16 novembre 1991 (archivio personale di Loredana Barbanera)

L’articolo ci informa innanzitutto che la vertenza aperta da Mario con l’Amministrazione Comunale aveva trovato rapidamente un esito positivo. Appare poi estremamente  interessante e significativo perché testimonia di come una parte dei castelferrettesi [29] avesse ancora vivo il ricordo di Mario e della passione messa nella manutenzione dell’orologio. Non è un caso, pertanto, che a  questo articolo-appello due giorni dopo, il 18 novembre, sempre sulle pagine del “Corriere Adriatico”, ne fece seguito un altro in cui Scamacci diede conto della risposta dell’Amministrazione Comunale:

Foto n. 29 Articolo di Stefano Scamacci sul “Corriere Adriatico” del 18 novembre 1991 (archivio personale di Loredana Barbanera)

Alcuni castelfrettesi (nel secondo articolo apprendiamo che erano residenti dalle parti del maniero medioevale) si lamentarono dunque, nel novembre del 1991, del fatto che l’orologio dopo la morte di Mario sarebbe stato sostanzialmente abbandonato a sé stesso. Ancora una volta Scamacci (o forse le sue stesse fonti in paese?) bisticcia un po’ con i numeri, perché scrive che l’orologio da circa tre anni resta solo un’immagine. Tre anni circa, prima del novembre 1991, vuol dire, infatti, 1988, e in questo anno Mario era ancora custode scrupoloso dell’orologio. Se, poi, i tre anni decorrono dal novembre 1991 fino al momento in cui Mario ammalato non può più avere cura dell’orologio, finiamo per scontrarci con l’evidenza cronologica, in quanto la malattia si manifesta poco prima del Natale 1989. Al di là dei numeri quello che importa osservare è comunque che nel novembre 1991 i castelfrettesi hanno talmente vivo il ricordo che Mario, dopo averlo restaurato e rimesso in funzione, aveva manutenuto con scrupolo e passione per cinque anni l’orologio, da non tollerare che questo non funzionasse a pieno, così da non sentire più a distanza i rintocchi delle due campane battere le ore e i quarti. La sostituzione del cavetto da parte dell’Ufficio tecnico comunale avrebbe di lì a pochi giorni rimesso a posto le cose (forse si tratta di quello stesso cavetto a cui si riferisce per una sua precedente sostituzione il buono d’ordine trovato tra le carte di Mario e sopra ricordato?). La nota comunale citata da Scamacci ci informa poi che intanto qualcuno aveva raccolto l’eredità di Mario: Girolamo Pimpini (1924-2019), per i castelfrettesi Girò, il cui ruolo di custode-manutentore dell’orologio, durato dunque dai primi anni Novanta fino a tutto il 2012, è giustamente vivo nel ricordo paesano (mi riferisco ai post dedicati all’orologio che in più occasioni sono stati pubblicati sulla pagina Facebook “Castelferretti e Castelfrettesi” o a quanto ricordato nella sezione L’orologio del portale della “Pro Castelferretti”[30]). A Girolamo l’incarico di custodire l’orologio fu affidato dal Consiglio di Quartiere con la previsione di un compenso mensile, come mi ha recentemente ricordato Renzo Amagliani che ne è stato l’ultimo Presidente tra il 1990 e il 1993. Girò, tuttavia, stando alla testimonianza sopra riportata di Patrizio Pierini, sembra avere avuto parte anche all’impresa promossa da Mario. Né le ricostruzioni scritte da Mario, né gli articoli della stampa locale che si riferiscono al restauro dell’orologio a cui è dedicato il presente racconto riportano il suo nome. Nel periodo in cui seguii i lavori, nel biennio 82-83, non ricordo di averlo visto all’opera con Mario e gli altri suoi collaboratori, né Girò rientrava nel nucleo originario di volontari a cui mi riferii nella mia relazione presentata al Comune nel dicembre 1982 (costituito, ripeto, da Mario, Lino e Maurizio). Non escludo, anzi ritengo assai probabile che Girolamo possa essersi inserito dando qualche consiglio nell’ultimissima fase dell’impresa (quella della messa a punto della carica automatica) nei primi mesi del 1984 o nel periodo successivo in cui Mario, a impresa terminata, svolse il ruolo di custode e dovette provvedere alla manutenzione dell’orologio. Questo suo coinvolgimento può aver costituito per Girò la premessa per la successiva assunzione in prima persona di detto ruolo, dopo la morte di Mario.

Conclusione

Stefano Scamacci onorò la memoria di Mario nell’articolo del 16 novembre 1991 di un bellissimo omaggio scrivendo che custodiva l’orologio, divenuto in breve tempo una sua creatura, con grande scrupolosità e puntiglio. Penso che Mario sarebbe stato contento e orgoglioso di queste parole. Le faccio mie nel rendere omaggio alla sua memoria. Allo stesso tempo un ricordo riconoscente va a tutti gli altri compaesani che ho menzionato in questo racconto e che non sono più con noi (Ferminio, Lino, Silvio, Gino, Girolamo, Rolando, Quinto, Mirello, Giordano, Alfio, Sauro). Un grazie di cuore va a Luigi, detto Gigetto, e a Maurizio, l’orologiaio. Ebbero tutti con Mario parte, piccola o grande che sia, vuoi per il lavoro direttamente svolto, vuoi per un’indicazione o un consiglio dati, vuoi per il sostegno finanziario, vuoi nella messa a disposizione del materiale necessario, vuoi per l’incarico istituzionale coperto, nella bella e generosa impresa che portò, ormai tanto tempo fa, dopo più di dieci anni di inattività, a far di nuovo battere le ore all’orologio del nostro castello.


Note

[1] Dedico questo racconto alla memoria di mio padre, Giordano Molinelli (1933-2021).

[2] Così il compianto Fabio Borgognoni a pagina 125 di Personaggi di Ancona e delle Marche. Racconti in dialetto, a cura di Fabio M. Serpilli, Varano 2009, Comitato organizzatore manifestazioni Varanesi.

[3] Non entro ovviamente in questo mio racconto, per mancanza di competenza e di informazioni, sulla questione storica del periodo a cui risalirebbe l’orologio. Nel portale della “Pro Castelferretti” è scritto a tal proposito che è “difficile poter stabilire con sicurezza la data di costruzione e quella di installazione dello stesso. Una voce di paese vuole farlo risalire alla fine del 1700 ma ultimamente, consultato il maestro orologiaio Alberto Gorla da Cividale Mantovano (MN), tramite l’invio di foto, sembra più probabile che risalga ‘semplicemente’ alla fine del secolo successivo”.

[4] Questa biblioteca conserva le annate del “Corriere Adriatico” comprese tra il 1971 e il 2005. La paziente consultazione delle annate del quotidiano comprese tra il 1980 e il 1993, iniziata nel mese di luglio e terminata nel mese di ottobre 2023, mi ha consentito di ritrovare e datare gli articoli il cui ritaglio senza data è presente tra le carte di Mario, nonché di scovare qualche altro articolo che, pur non trattando direttamente dell’impresa dell’orologio, mi è stato utile per i cenni che qua e là nel racconto ho dovuto necessariamente fare all’attività del Consiglio di Quartiere tra il 1980 e il 1993. Mi incombe l’obbligo di ringraziare il personale della Sala Studio dell’Archivio di Stato, in particolare le dott.sse Daniela Donninelli e Monia Medici.

[5] La seconda ricostruzione appare più decisamente finalizzata a evidenziare la positiva conclusione dell’impresa di restauro e rimessa in funzione dell’orologio: sono completamente assenti i cenni di polemica politica che caratterizzano in qualche punto la prima ricostruzione.

[6] Un chiaro indizio cronologico è la cortina muraria che appare ripristinata. Su questo particolare tornerò a breve.

[7] La prima ricostruzione dell’impresa è più sintetica, ma ugualmente significativa: Da quasi 11 anni vedevo tutti i giorni l’orologio del paese fermo, le scritte sul quadrante non esistevano più, il macchinario era in una baracca vicino al Castello.

[8] Di questa elezione dà notizia il “Corriere Adriatico” del 15 ottobre nel breve articolo Castelferretti: eletto il Presidente di circoscrizione: vi si annuncia, con un trionfalismo immotivato e infondato in quanto non corrispondente alla realtà giuridica, che a Falconara e a Castelferretti ora vi sono due sindaci, anche se quello periferico – il comunista Ferminio Massi – si chiama Presidente del consiglio circoscrizionale di Castelferretti. L’esperienza del Consiglio di Circoscrizione o di Quartiere di Castelferretti eletto direttamente proprio in occasione delle elezioni amministrative del 1980 e successivamente rinnovato nei suoi componenti nelle amministrative del 1985 e del 1990, cessa definitivamente nel 1993 in applicazione della Riforma degli Enti Locali del 1990. Al Consiglio di Quartiere di Castelferretti intendo dedicare una prossima ricerca che dovrà comprendere non solo il periodo in cui, dal 1980 al 1993, fu in carica a seguito di elezione diretta da parte dei cittadini nelle votazioni amministrative del 1980, 1985 e 1990, ma anche gli anni 1978-1979 in cui operò a seguito di nomina da parte del Consiglio Comunale sulla base dei voti conseguiti a Castelferretti dalla lista di ciascun partito nelle elezioni comunali del 1975. I Presidenti del Consiglio di Quartiere furono tra il 1978 e il 1993 Marco Amagliani, Ferminio Massi, Marco Molinelli, Sauro Bucciarelli, Alberto Vici, Gianfranco Galli e Renzo Amagliani.

[9] Vinicio Bastianelli era stato eletto, ad essere precisi, come indipendente nella lista del P.C.I.

[10] Nella seconda ricostruzione Mario non fa più riferimento alcuno alla discussione in Consiglio di Quartiere: Avuta questa assicurazione dal tornitore Lino Pierini, in una riunione del mio partito, il P.C.I. con il Consiglio di Quartiere, proposi di far funzionare di nuovo l’orologio del Castello senza pretendere nulla. La mia proposta venne accettata.

[11] Non dissimile nella sostanza la seconda ricostruzione: Nel frattempo, il Presidente del Consiglio di Quartiere Massi Ferminio portava il macchinario presso la sua azienda per pulirlo e studiare come doveva essere fatto. La prima cosa che pensò era quella della carica dell’orologio, perché erano state fatte delle modifiche alla muratura del fabbricato e per questo l’addetto alla carica doveva alzarsi anche di notte per ricaricare. Così fece preparare 3 motori trifase 180 volts, 0,4 HP, 3 riduttori, la messa a punto della carica automatica e la suoneria. Interessante il riferimento alle modifiche alla struttura muraria che avrebbero comportato ricariche manuali molto frequenti nella giornata, anche in orario notturno, se non si fosse automatizzato il meccanismo.

[12] Il Consiglio di Quartiere nel 1983 accettò la disponibilità dello scultore e pittore jesino Edmondo Giuliani (1915-2007; la biografia di Edmondo si trova al seguente link. https://www.firenzeart.it/artisti/biografia) per la creazione del monumento ai Caduti e alla Resistenza, poi denominato Monumento alla libertà, che l’anno dopo, sotto la Presidenza di Sauro Bucciarelli, fu inaugurato e collocato in Piazza della Libertà il 2 giugno 1984 (ne dà notizia il “Corriere Adriatico” annunciando l’imminente cerimonia inaugurale in data 22 maggio 1984 con un articolo di approfondimento critico sulla scultura intitolato Scultura di Giuliani donata a Falconara). Oggi il monumento si trova in piazza 2 Giugno. L’attuale collocazione data ufficialmente il 2 giugno 1999, in occasione dell’intitolazione della piazza della lottizzazione Leopardi rimasta fino ad allora senza nome, come si legge nel sito delle Pietre della memoria/ e come riporta il “Corriere Adriatico” del 3 giugno 1999 in un articolo di Marina Minelli dedicato a tutte le manifestazioni per l’anniversario della Repubblica che si erano tenute in ambito comunale. Il nome di Monumento alla libertà è stato dato su proposta dell’A.N.P.I. Il sito, purtroppo, non menziona il nome dello scultore e tra i castelfrettesi di oggi si è persa l’esatta conoscenza di come si arrivò a Edmondo Giuliani: l’avevo conosciuto per via di ripetizioni di latino che davo a sua nipote; egli accettò, senza nulla pretendere in cambio, di realizzare la scultura, sottoponendo alla commissione cultura del Consiglio di Quartiere nell’autunno 1983 diversi bozzetti, tra cui scegliere. Ricordo che lo stesso Giuliani si procurò i pezzi che danno vita alla composizione scultorea e che fu necessaria la pulizia tramite sabbiatura degli stessi: dove questo intervento fu svolto non ricordo con precisione (forse una ditta dalle parti del fiume?), ma so bene che il trasporto avvenne a cura del Comune, anzi ad essere più preciso, di Renato Moschini.

[13] Ricostruzione n. 1: L’incontro avvenne dopo che il Comune aveva montato una impalcatura all’altezza del quadrante dell’orologio. Questi mi chiese come avrei fatto il lavoro, gli risposi che avrei fatto tutto nuovo perché non tutti i numeri si trovavano al posto giusto. No, mi rispose, lei lo ripristina come è, con tutti gli errori che ci sono. Ricostruzione n. 2: E infatti si arrivava ad una prima risoluzione, cioè i lavori del rosone e del quadrante esterno, lavori che dovevano essere fatti con l’ausilio di un geometra addetto delle Belle Arti. Infatti, mi fece incontrare con detto geometra. L’incontro si risolveva con pochissime parole. Il geometra rivolgendosi a me: Come vuole fare questo lavoro? Risposta mia: Vorrei rifarlo nuovo. E lui: No, Lei lo deve solo riparare nelle parti guaste. O così o niente! Ed io: D’accordo, faccio come lei vuole…anche se i 45’ sono più avanti

[14] La Ricostruzione n. 2 non si discosta dalla n.1: Con il geometra delle Belle Arti e il Presidente del Consiglio di Quartiere trovammo il materiale adatto per ripristinare il quadrante e il rosone dell’orologio.

[15] A questo sopralluogo, probabilmente, non seguì da parte del funzionario che lo aveva condotto un referto del tipo di quello prodotto dopo il primo sopralluogo. La Soprintendenza, a cui ne ho fatta espressa richiesta, mi ha infatti comunicato che “non è stato reperito agli atti”.

[16] Ricostruzione n. 1: Nel mese di agosto 1983 il Comune metteva in posizione una impalcatura senza tenere conto come dovevo salire. Fortunatamente nel piano ove doveva essere sistemato l’orologio c’era un vetro con una intelaiatura fissata con delle viti. Tolta questa, mettevo un ponte che arrivava proprio all’impalcatura, così potevo accedere attraverso le scale del Castello. Ricostruzione n. 2: Però, per poter iniziare i lavori dovevo risolvere un problema. Chi aveva fatto l’impalcatura non aveva tenuto conto come dovevo salire. Fortunatamente al piano della impalcatura, che era il piano dell’orologio, vi era un vetro con intelaiatura in ferro, fissata con delle viti. Togliendo questa e mettendo un ponte tra il piano e l’impalcatura, potevo accedere dalle scale del Castello.

[17]https://www.campanologia.it/contenuto/pagine/02-ARS/ARS-G10-Fonditori-Marche/ARS-G10-11-AN-Sassoferrato-Macerata-Baldini.htm

[18]https://www.campanologia.it/contenuto/pagine/02-ARS/ARS-G10-Fonditori-Marche/ARS-G10-04-AN-Ancona-Di-Giorgi.htm

[19] Monsignor Mario Natalucci, La vita millenaria di Ancona, Città di Castello 1975, p. 414-415, scrive, riferendosi alle trasformazioni strutturali del castello nel Seicento, che “la torre centrale fu dotata di un’edicola con due campane” e nella nota 1 di p. 415 osserva che “probabilmente l’orologio fu posto più tardi”. E certamente (vedi nota n. 3 del presente lavoro) l’orologio parrebbe della fine del XIX secolo. Quanto alla realizzazione dell’edicola nel Seicento non è dato dal Natalucci riscontro alcuno. Assumendo per sicura tale datazione, dobbiamo concludere che due secoli più tardi le campane originali furono sostituite con quelle ancora in loco.

[20] Maurizio, fino al 1984 ebbe il suo laboratorio in Piazza Albertelli, per poi trasferirlo in via Osoppo. Scrivo semplicemente Maurizio, perché così lo conoscevo allora, anche se oggi nel suo profilo Facebook vedo Fabrizio Maurizio.

[21] Così leggiamo nella Ricostruzione n. 1: Nel frattempo, montavo la cosiddetta carica automatica. Una volta montata con motori ruote libere di biciclette e catene, con tutte le prove che si prolungavano per circa 60 giorni, e non funzionava – decisi di mettere una elettrocalamita e, recatomi da Cimoni, gli chiesi un motorino di avviamento di una Fiat 500.  Una volta avutolo, andai da Molinelli padre, esperto di motori, feci cambiare il cambio e l’indotto del motorino, da 12 volt a 220 volt. Nel frattempo, Gino Vitali trovava una frizione adatta alla carica. La cosa andrà per le lunghe.

[22] Ricostruzione n. 1: Nel frattempo, tecnicamente mi contattai con Massi Ferminio spiegandogli quale era il problema. Lui mi fece vedere una elettrocalamita che era nella sua macchina. Si trattava di una elettrocalamita da 12v.cc.che serve per mandare il compressore per l’aria condizionata. Era una spesa e Ferminio disse subito che avrebbe pensato lui a finanziare. E così fu, ma si doveva attendere ancora altri 4 o 5 mesi.

[23] Sicuramente Lino Pierini, perché Malatesta ricorda che aveva il suo laboratorio in via XXV Aprile non distante dalla piazza.

[24] 15 sommato a 1972 dà appunto 1987: anche i numeri usati da Scamacci confermano la convinzione anacronistica dell’articolista che l’orologio avesse ripreso a funzionare da poco e non tre anni prima.

[25] Scamacci scrive che Massi si fece carico delle spese di riparazione del quadrante. Si tratta di un’imprecisione, perché, come ho sopra scritto, il materiale necessario al restauro del quadrante venne offerto generosamente da una ditta di materiali per l’edilizia di Chiaravalle grazie all’interessamento di Rolando Mengarelli.

[26] L’articolo nomina Silvio Vitali, ma Mario nella Ricostruzione n. 1 fa il nome del fratello Gino. Più avanti cercherò di sciogliere il dubbio sull’identità prendendo spunto dall’articolo del 1988 di Daniela Giacchetti pubblicato su “La Gazzetta di Ancona”.

[27] La mostra venne organizzata nell’ambito delle belle manifestazioni per i 600 anni dalla fondazione del Castello.

[28] Su Girò e la sua partecipazione all’impresa tornerò più avanti.

[29] Così scriveva Scamacci nel rispetto della regola di derivazione  della grammatica italiana (se Falconara > Falconaresi, Chiaravalle > Chiaravallesi, allora Castelferretti > Castelferrettesi). Ma la matrice dialettale gallo-picena si è imposta nel forgiare la forma italiana in uso: così gli abitanti di Castelferretti sono designati con il nome di ‘Castelfrettesi’.

[30]https://www.castelferretti.it/index.php/2022/08/12/lorologio-del-castello/

      Appendice storica

Il Castello dei Conti Ferretti: qualche cenno sulla sua edificazione, la sua struttura originaria, le modifiche nel corso del tempo, le sue due lapidi.

Di seguito qualche indicazione sulla vicenda storica del castello e dei Ferretti. Non sono per formazione né uno storico né un architetto: ho pertanto citato in più punti il lavoro di altri che si sono cimentati nella ricerca storica relativa ai Ferretti e nello studio dell’evoluzione strutturale del castello. Quello che c’è di mio, e se si vuole di originale, è invece il tentativo di approfondire la lettura delle iscrizioni che compaiono rispettivamente sulla lapide posta sotto l’orologio (datata 1386) e su quella che si trova sul muro del castello a metà del lato prospiciente l’attuale via XIV Luglio (risalente al 1582).

Cominciamo dal castello. L’edificazione si completò nel 1397, ma la sua origine può risalire a tredici anni prima. Nel 1384, infatti, Francesco Ferretti,

discendente di uomini d’arme originari della Germania, chiede al vicario generale della Marca Anconitana, Andrea Bontempi, di trasformare una torre di guardia già esistente nella “piana dei ronchi” tra Falconara e Chiaravalle – cioè, un’area roncata, disboscata per essere assoggettata a produzione agricola – in un luogo fortificato capace di contenere armati e vettovaglie. La torre aveva avuto fino a quel momento la funzione di sorvegliare per lo più i confini segnati dal fiume Esino, soggetto a frequenti inondazioni, motivo di attriti continui tra Jesini e Anconitani. L’edificazione di un castello è divenuta infatti necessaria probabilmente per difendere i territori e i contadini dalle scorrerie delle armate angioine che proprio in quegli anni dilagano nella lotta tra Urbano VI e l’antipapa avignonese Clemente VII. In questo periodo vengono infatti ristrutturate anche le altre rocche del circondario, quelle di Bolignano, del Cassero e di Fiumesino. Al completamento della costruzione, nel 1397, Francesco Ferretti venne nominato da Bonifacio IX conte di Castelfrancesco, la contea che si estende dal fiume Esino sino ai confini con Ancona in una pianura fertile in parte recuperata dal letto del fiume, di cui era stato deviato il corso parzialmente. Tale riconoscimento del feudo ai Ferretti, famiglia appartenente alla nobiltà di Ancona, incrinò ulteriormente le relazioni tra Anconetani e Jesini, fra i quali la disputa territoriale per il possesso delle terre al di qua e al di là dell’Esino si chiuderà solo nei primi decenni del XVI secolo [31].

La prima descrizione della struttura del castello quale si determinò tra il 1384 e il 1397 è fornita da un discendente e omonimo del fondatore, il conte Francesco Ferretti, che nel 1685 scrisse e pubblicò ad Ancona presso il rinomato tipografo Francesco Serafini, dedicandola al re di Francia Luigi XIV, la Pietra del paragone della vera nobiltà discorso genealogico de conti Ferretti con varie notitie historiche, e riflessioni sopra i pregi della nobiltà (d’ora in avanti citata semplicemente come Pietra del Paragone).

Ecco, nel suo italiano di fine Seicento che ho voluto riproporre fedelmente con le sue peculiarità grafiche [32], il testo seguito dal disegno, come riportato dal libro, dello stemma e della lapide con l’iscrizione fatta apporre dal fondatore del castello nel 1386 (pp. 68-69):

Laſciata in piedi l’antica Struttura della Torre, e ſuo recinto di Mure con ſua Saracineſca alla Porta (perche à Poſteri reſtaſse perpetua la memoria dell’antico luogo dominato, e poſseduto da ſuoi Antenati con commoda, &honoreuole habitatione, con nome di Palazzo enuntiata in antico Iſtromento di Notaro Anconitano ſolito habitare per ciò nella Città, e non ne Tugurij di Villa, capaci al pari delle piú Riguardeuoli habitationi, che in qual ſi ſia luogo nell’Anconitano Territorio nei ſecoli andati ſi rinuenga, anche dalle veſtigie delle demolite Torri, edificate da particolari Cittadini; per non poco diſimile da quella di Bolignano à confini del Territorio verſo Oſimo, vicino à Monte Gallo, eretta à difeſa de ſuoi Confini dalla Generoſa Magnificenza dell’Anconitano Senato ſenza hauer hauuto dubio di chiamarlo con il ſpecioſo Titolo di Caſtello, nelle pubbliche ſcritture della Città) diede principio alla ſtruttura del fortilitio, conſcio delle Regole militari in forma proportionata al poterſi difendere dagl’habitanti del proprio Territorio, ſi che non eccedè il recinto à paſſi ottanta ſei trè piedi, e mezzo Romani, in forma quadra, con profonde mura à contraſcarpa, perche reſtaſſe recinto da ampla, e capace foſſa, alla quale per ſotterranei condotti ſi poteua communicar l’acqua, di dentro eſiſtente, di vena abbondantiſſima, e indeficiente, ridotta in ciſterna ben capace, nella Piazza del Caſtello di qualità aſſai perfetta, con erigerui in ciaſcheduna delle trè cantonate, le ſue Torri, di groſſiſſime mura, e di ben conſiderabile altezza, ſuoi Corridori dall’vna all’altra Merlati, ſuoi Barbacani, altra ſimil Torre ſopra la Porta del detto Caſtello con ſuo Ponte Leuatore, con erigerui dentro, e Chieſa [33], e Forno, e Foſſe per riporre quantità di grani, habitationi d’ogn’intorno per di dentro capaci dà commodamente habitarſi, facendoui ſcolpire ſopra la Porta in Marmo, da ſcalpello ben raro in quel Secolo la di lui Arme con il Padiglione amantata, ſecondo l’antico uſo praticato da ſuoi Maggiori quali vn ſecolo auanti, laſciata ſolo l’antica impreſa del Peſce, mà per Marca di propria gloria inciſoui il Leone, che tiene impugnato vn Giglio in vna Brancha, e nell’altra la ſpada, ornamento praticato dalla Firentina Republica, è ſolito conferirſi a Podeſtà benemeriti, con inſcriuerci ſotto in picciola Pietra il tempo dell’erettione del detto Caſtello, e ſuo nome.

Dunque,

il castello offre una sicura abitazione agli agricoltori che lavorano nei campi circostanti e agli artigiani dediti ad attività di sostegno all’economia agraria (…) Il fortilizio ha una forma quadrata con profonde mura a controscarpa, “recinto da ampla e capace fossa” alimentata attraverso “sotterranei condotti” da una vena tanto abbondante da colmare pure una cisterna scavata nella piazza interna. Lasciata in piedi l’antica torre di guardia, vengono elevate altre tre torri “di grossissime mura, e di ben considerevole altezza” e tra una torre e l’altra va un “corridore” merlato. Un’altra torre domina l’ingresso, a cui si accede per un ponte levatoio, che si apre sul cortile interno dove c’è la chiesa col forno e una gran quantità di fosse capaci di contenere e conservare il grano frutto delle annuali raccolte [34].

Francesco Ferretti, come il testo del libro del suo omonimo discendente evidenzia, introdusse per marca di propria gloria nello stemma della famiglia (da ormai cento anni rappresentato dallo scudo con due bande con sovrapposto cimiero su cui è impresso un pesce) [35] il leone che tiene tra gli artigli delle due zampe effigiate un giglio e la spada; e così il leone scalzò il pesce.

Il pesce, che, a detta dell’autore della Pietra del Paragone, fu il solo elemento che Francesco modificò nello stemma avìto [36], di seguito riprodotto nel disegno tratto dalla Pietra del Paragone (p. 43).

Il leone introdotto da Francesco era l’ ornamento praticato dalla Firentina Republica, (…) ſolito conferirſi a Podeſtà benemeriti: Francesco a propria gloria aveva meritato questa onorificenza e i suoi contrassegni (ornamento) per il suo ufficio di podestà nella città toscana svolto nel 1374 (a tal punto apprezzato, va aggiunto, che i Fiorentini lo vollero di nuovo podestà nel 1387)[37].

Quanto all’iscrizione, ne riproduco di seguito la foto proveniente dall’Archivio del circolo “Il Diaframma” e dell’Associazione “Amici della Cultura” di Falconara M.ma, che ricavo dal libro già citato in nota Un paese, una cassa rurale etc. p. 13:

L’epigrafe, su lastra in pietra calcarea (probabilmente Pietra d’Istria) alta indicativamente 38 cm e larga 50 [38], presenta i caratteri della scrittura cosiddetta ‘gotica epigrafica’ (mi sembrano davvero belle le lettere, su tutte la E, la D e la M, nella loro forma rotondeggiante, onciale). Il testo inizia con il simbolo della ‘croce potenziata’ (praticamente formata, per così dire, da quattro T :☩) preceduta da tre punti disposti verticalmente: il braccio inferiore appare più lungo e tagliato orizzontalmente, un po’ prima della sua estremità, da un tratto più esteso di quello che taglia gli altri tre bracci. Così, considerato che le tre parole successive vanno lette come CHRISTI NOMINE AMEN, si può ritenere che questa croce così inscritta sia da interpretarsi come equivalente alla sigla I con cui si rappresenta la preposizione IN. Le parole intere o abbreviate, le sigle e le stesse indicazioni numeriche (vedi riga 6, con la distinzione di migliaia, centinaia, decina e unità) sono separate tra loro da un segno di interpunzione posto a mezza altezza e simile a un piccolo rombo.

Trascriverò di seguito il testo per intero [39] segnalando la fine di riga coincidente con la fine di parola con la barra obliqua posta tra due spazi ( / ); se però la parola va a capo perché divisa tra due righe, i due spazi vengono meno (/).

Tra parentesi tonde collocherò la lettera o le lettere che il lapicida ha omesso [40], com’era uso, per risparmiare spazio, contrassegnando o con il simbolo ^ sovrapposto alla parola interessata dall’abbreviatura o con la lineetta diritta a taglio dell’asta della lettera (è il caso della I con cui inizia la prima riga) o con la lineetta ondulata sovrapposta alla parte terminale della ‘gamba’ della lettera (è il caso della sigla P che vale Per prima di NOBI nella seconda riga). Ecco la trascrizione interpretativa dell’epigrafe :

(Crux) I(N) XRI(STI) NO(M)I(N)E AM(EN) HOC CA/STRU(M) FACTV(M) FVIT P(ER) NOBI/LEM ET MAGNIFICV(M) MILI/TE(M) D(OMI)N(V)M FRANCISCVM / DE FERRETTIS DE ANCO/NA MCCCLXXXVI / CVIVS ARMA HEC EST

Ora ripropongo di continuo il testo latino, eliminando i segni diacritici, e ponendo alcune lettere (X>CH; V>U) nella forma per così dire più abituale anche per chi ha poca frequentazione di lettura del latino:

IN CHRISTI NOMINE AMEN. HOC CASTRUM FACTUM FUIT PER   NOBILEM ET MAGNIFICUM MILITEM DOMINUM FRANCISCUM DE   FERRETTIS DE ANCONA MCCCLXXXVI. CUIUS ARMA HAEC EST

La traduzione è questa: Nel nome di Cristo Amen. Questo castello fu edificato per opera del nobile e magnifico Cavaliere, Signore Francesco dei Ferretti di Ancona, nel 1386. E di lui (letteralmente: del quale) questo è lo stemma.

Ci imbattiamo in un latino, quello medievale, che non è più, per naturali ragioni storiche, quello classico che studiamo a scuola. Da notare, a tal proposito, innanzitutto il perfetto passivo factum fuit (nel latino classico troveremmo factum est) in cui, sviluppando una tendenza già da secoli evidente nel latino volgare, il valore proprio del tempo verbale latino (corrispondente al nostro passato remoto) è espresso mettendo appunto al perfetto la forma finita dell’ausiliare esse, ‘essere’: nel nostro caso la terza persona singolare fuit che esprime la forma verbale unendosi al participio passato del verbo facere. Meritevoli di attenzione sono poi il sostantivo arma di genere femminile e declinato anche al singolare (si tratta del completamento dell’evoluzione del latino classico dove arma è forma di genere neutro e solo plurale con valore collettivo) [41], il pronome/aggettivo dimostrativo femminile hec (nel latino classico haec) che mostra nella sua grafia la definitiva evoluzione-semplificazione del dittongo ae nella vocale e (un fenomeno già iniziato secoli prima nel periodo repubblicano).

Anche sotto il profilo lessicale si rilevano fatti interessanti. Miles, presente nella forma dell’accusativo singolare a cavallo tra la terza e la quarta riga, è più che il semplice ‘soldato’ del latino classico di un Cesare o di un Cicerone: nella temperie medievale e per un personaggio come il Nostro va inteso nel senso di ‘cavaliere’. Ricorda a tal proposito il glossario del latino medioevale del francese Du Cange che “MILES, apud Scriptores inferioris ætatis, is potissimum dicitur, qui Militari cingulo accinctus est, quem vulgo Chevalier appellamus”[42]: il cavaliere era appunto “armato con la cintura militare” nella quale era infilata la spada. E che il titolo di Miles  / ‘Cavaliere’ fosse di assoluta importanza ce lo ricorda anche la Pietra del Paragone (p. 88) quando, con riferimento a un atto notarile (iſtromento) del 1419 in cui si fa il nome proprio del nostro quondam Spectabilis Militis Domini Francisci dè Ferrettis de Ancona, ovvero “del fu Francesco dei Ferretti di Ancona Spettabile Cavaliere”, scrive:

E’ degno d’oſſeruatione il vederſi in detto iſtromento chiamato Franceſco co il tiolo di Miles, ſenz’ altra aggiunta di Conte, come ſono enuntiati li di lui Fratelli, ſeruendo per argomento ben chiaro della stima, in che era in quel Secolo il grado di Caualliere, riconoscendoſi per Marca di Nobiltà, e di proprio merito, quando il titolo di Conte, benche con Feudo non porta in conseguenza necessario argomento di pura Nobiltà.

Dunque, un Miles, ovvero un Cavaliere, al tempo in cui visse il fondatore del Castello si distingueva per appartenere alla Nobiltà, prerogativa che un Conte, benché concessionario di un feudo, non poteva necessariamente vantare. In ogni caso Francesco Ferretti nel 1386, anno dell’iscrizione, non avrebbe ancora potuto esibire il titolo di Conte in quanto solo più tardi fu costituita la Contea di Castel Ferretti prima denominata Castel Francesco (Bolla [43] Diletto Filio di Papa Bonifacio IX del 9 febbraio 1397 emanata su richiesta dello stesso Francesco: vedi la Pergamena n. 5 appartenente all’Archivio della famiglia Ferretti conservata presso l’Archivio di Stato di Ancona;  è riportata in parte nella Pietra del Paragone, p. 70). Francesco assunse il titolo di Conte con diritto di trasmetterne i privilegi a tutti i suoi discendenti ed eredi in perpetuo.

Successivamente papa Martino V, con Breve 8 aprile 1421 esonerò tutti i membri della famiglia dei Ferretti da ogni tribunale, mettendoli sotto la diretta giurisdizione della Santa Sede ; Pio V e Clemente VIII riconfermarono la contea di Castelferretti e tutti gli annessi privilegi [44].

Ciò detto, veniamo a un’altra parola meritevole della massima attenzione. Si tratta di Arma presente nell’ultima riga (di cui poco sopra abbiamo evidenziato l’evoluzione morfologica rispetto al latino classico) che qui ha, come in altre testimonianze del latino medievale, il significato di ‘stemma, insegna’, come attestano i lessici di settore [45]. Conseguentemente possiamo meglio apprezzare la funzione svolta dalle parole dell’ultima riga, una sorta di didascalia con la quale il lapicida, dopo aver inciso la data MCCCLXXXVI, a chiusura dell’iscrizione che ricorda la costruzione del castello, invita, anche oggi, chi sosta davanti alla torre dell’orologio ad alzare lo sguardo sopra la lapide per ammirare lo stemma che Francesco si era dato per marca di propria gloria, non dimentichiamolo, rinnovando quello di famiglia. E forse chi alza lo sguardo verso la lapide e guarda con attenzione lo stemma memore della descrizione offertane nel 1685 dall’autore della Pietra del Paragone finirà per notare, come è capitato al sottoscritto, che qualcosa non torna: la zampa anteriore sinistra visibile nel disegno del 1685, quella che tra gli artigli brandiva la spada, non c’è più, perché sono ben visibili i segni della sua mutilazione (come ben mostra la fotografia seguente tratta dal libro già citato Un paese, una cassa rurale etc. p. 12):

Non ho trovato cenno alcuno a questo particolare in nessuno dei   testi che affrontano il tema della storia del castello, che, pure, tutti recano la foto dello stemma con il leone, per così dire, azzoppato. Può essere l’occasione per chi vorrà di approfondire la questione, magari presso la Soprintendenza ai Monumenti.

Torniamo ora alla struttura del castello per osservare con Maurizio Mauro (op. cit., pp. 59 e 57):

Quasi un incantesimo, un esemplare di castello estense sembra trapiantato in prossimità della foce dell’Esino, laddove situavasi la Piana dei Ronchi […] ha indubbia affinità con le coeve costruzioni fatte erigere dagli Estensi (ma anche dai Gonzaga vorremmo aggiungere) a difesa del loro territorio. Infatti, al pari dei castelli eretti a Ferrara (Castello Estense) e a Mantova (Castello di S. Giorgio), si è in presenza di impianti quadrati e con torri quadrate agli angoli, così come nella seppur più modesta realizzazione di Castelferretti. Specie nel caso di Mantova, le analogie tipologiche e costruttive sono molteplici (uso del laterizio, generalizzazione dell’apparato a sporgere da cui scaturiscono caditoie per una difesa piombante continua, ponte levatoio, coronamento di merli alla ghibellina). Ed anche il fossato va considerato (a Castelferretti è stato eliminato definitivamente).

Va notato che alle quattro torri angolari se ne aggiunse una quinta, posta a sud-ovest a protezione dell’ingresso del castello. Eccone, ricavati da un documento del 1473 i nomi e la relativa collocazione: a ovest l’originaria torre dei Ronchi, detta di s. Francesco, a nord quella detta di s. Maria, ad est la torre di s. Liviero, a sud quella di s. Antonio, infine la torre di ingresso detta di s. Giovanni, posta a sud-ovest.

La torre più antica, orientata ad occidente, doveva fungere da torre di comando sull’intero complesso; riferendoci all’attuale toponomastica, essa era posta nell’angolo del castello che dà sulle piazze Albertelli e della Libertà. Oggi tale torre non esiste più: al suo posto c’è un fabbricato la cui costruzione, nel Seicento, ha determinato l’atterramento della cortina compresa fra essa e la torre d’ingresso. Quest’ultima è a pianta quadrata ed è provvista di un solo fornice, che era dunque carraio e pedonale al tempo stesso. La sicurezza della porta era garantita da un ponte levatoio manovrato da due bolzoni con catene: ancora oggi è possibile vedere i canali di scorrimento dei bolzoni. La difesa dell’accesso era integrata da una serie di piombatoi intercalati da beccatelli, su cui si innestava un apprestamento sommitale in aggetto, originariamente coronato da merli, ora inglobati nella volumetria murata, coperta a capanna. La fortezza era circondata da un fossato, che è stato riempito. (Così G. Campana in Falconara. Storie e immagini, cit., p. 155).

Facciamo un passo avanti nella conoscenza della storia del castello e delle sue trasformazioni grazie alla efficace sintesi che ne danno gli architetti Guerri e Turchi nella loro relazione tecnico-illustrativa [46] al “Progetto preliminare di recupero funzionale del complesso monumentale castello di Castelferretti e delle piazze limitrofe”, progetto del 2006 che avrebbe meritato – e meriterebbe ancora – di essere tradotto in realtà:

L’intera tenuta dei Ferretti, “paludosa e selvata” fin verso la metà del Quattrocento è bonificata e messa a coltura per opera di gruppi di albanesi emigrati dalle terre di origine per sfuggire dalla pesante crisi economica conseguente al continuo stato di guerra dovuto alle invasioni turche nella penisola balcanica[47].

La relativa calma che si instaura per tutto il Cinquecento fa sì che il Castello sia trasformato in residenza apportandovi profonde modifiche. Nel 1509 è costruito il primo ponte di pietra all’ingresso del castello e nel 1582 Francesco di Piergentile Ferretti[48], dieci anni prima della sua morte, fa ristrutturare e trasformare il castello (à esterna), che perde così le sue caratteristiche di fortezza militare diventando, di fatto, residenza. Sono sopraelevati alcuni muri perimetrali, eliminate le merlature, costruito un corpo di fabbrica a ridosso delle mura perimetrali e innalzata di un piano, aprendo delle finestre, la cinta muraria esterna. Il territorio circostante subisce delle trasformazioni grazie ad una serie d’interventi, tra i quali la costruzione nel borgo di un “casino” con logge, giardino e di una nuova chiesa dedicata a S. Stefano.

Il feudo dei Ferretti ha una rapida crescita demografica. Francesco Ferretti, autore, nel 1685, della Pietra del Paragone, scrive che già nel Cinquecento nel feudo abitano 65 famiglie sistemate in “23 appartamenti all’interno del castello” e in altre piccole abitazioni raccolte nel borgo e in alcune ville nella campagna. (Verso la fine del Seicento, la popolazione raggiunge le 610 unità raccolte in 121 famiglie) [49].

A questo punto occorre fermare la narrazione dell’evoluzione storica e strutturale del castello e dedicare la giusta attenzione a quella lapide esterna che gli architetti nella loro relazione presentano come collegata alla trasformazione del maniero in residenza nobiliare con la sopraelevazione di alcuni muri perimetrali, l’eliminazione delle merlature, la costruzione di un corpo di fabbrica a ridosso delle mura perimetrali e l’innalzamento di un piano, aprendo delle finestre, della cinta muraria esterna. Eccone la foto da me scattata:

:

Di questa piccola lapide, che oggi vediamo affissa sulla facciata rivolta verso il mare, e del suo testo nulla dice il Francesco Ferretti autore della Pietra del Paragone, che pure si mostra sempre attento alle lapidi che riguardano il castello (quella del 1386 già esaminata, ma anche quella del 1631 [v. nota n. 42] posta sulla Chiesa di S. Andrea che sorgeva nella corte castellana in occasione del suo ampliamento). Di essa non parla né presenta la trascrizione del testo il lavoro precedentemente citato del Natalucci, né quelli, anch’essi presi in considerazione, di Mauro, di Minelli, di Graziosi. Una foto della lapide compare invece a p. 156 nel libro Falconara. Storie e immagini, anch’esso sopra citato, corredata da una didascalia che ne ricorda il posizionamento “nella facciata rivolta verso il mare” e la collocazione “in occasione di lavori fatti eseguire nel 1582 da uno dei più illustri componenti della casata, anch’egli di nome Francesco Ferretti, che fu condottiero della Repubblica di Venezia”: anche in questo caso, però, non viene riportata l’iscrizione. Vista la scarsa attenzione prestata alla lapide, mi pare necessario esaminarla con cura.

La lapide, una lastra di pietra calcarea (probabilmente Pietra d’Istria), alta circa 24 cm e larga 35 [50], è inscritta con i caratteri della cosiddetta ‘capitale epigrafica romana’, la scrittura delle iscrizioni romane che nell’età dell’Umanesimo e della riscoperta dell’Antico ritornò in auge in contrapposizione alla scrittura ‘gotica’, quella che, abbiamo visto, fa bella mostra di sé nella lapide del 1386 posta sotto l’orologio.

Sono trascorsi quasi due secoli da quando il fondatore del Castello vi fece incidere “da scalpello ben raro in quel Secolo”[51] l’iscrizione nei caratteri dello stile gotico. E se il lapicida di duecento anni prima a cui si era rivolto Francesco Ferretti, figlio di Liverotto, era uno “scalpello ben raro”, quello a cui si rivolge Francesco Ferretti, figlio di Piergentile, non mi sembra alla stessa altezza, anche se le dimensioni piuttosto contenute della lapide possono essere considerate una sorta di attenuante. Vari particolari portano a questo giudizio. Innanzitutto, la sua ‘gestione’ dell’ultima riga, nella quale finisce per incidere il numero 59 nel bordo dell’angolo destro inferiore, al di fuori del cosiddetto ‘specchio epigrafico’, cioè della superficie rettangolare, piatta e con base maggiore, che la lapide riserva all’iscrizione e delimita con le sagome ortogonali o ‘modanature’ che ne costituiscono la ‘cornice’. E sempre nella stessa riga, prima del numero 59, la sequenza ETATISVE fonde il sostantivo terminante con la S (ETATIS) con il suo aggettivo possessivo (SVE) iniziante con la medesima consonante.

Non si può, inoltre, non notare che: a) molte delle cosiddette ‘legature’ che elencherò più avanti traggono origine dal fatto che lo sculptor ha avvicinato troppo le lettere; b) è certo evidente la tendenza, motivata dalla ricerca dell’eleganza, a ricorrere all’inizio di parola alla cosiddetta lettera ‘ascendente’ o ‘montante’ cioè più alta e più larga rispetto alle successive [52] (es. nella riga 1 FRANCISCVS FERRETTUS RELLIGIO).

Alcune parole, tuttavia, quali CO/PIE (righe 2/3), EXACTVS (riga 4), SV/DORE SVI WULTVS (righe 4-5), ETATISVE (riga 7), si sottraggono a detta tendenza, senza, mi sembra, che si riesca a comprenderne ragione che non sia quella di restare nello spazio a disposizione nella riga [53].

Oggi è senz’altro più agevole, sia per chi sa il latino sia per chi l’ignora, tentare di leggere qualche parola dell’iscrizione del 1582 che non quella con le lettere gotiche del 1386, perché in sostanza, fatte salve non poche particolarità alle quali accennerò, l’iscrizione del 1582 ripropone i caratteri del nostro maiuscolo con il solito segno V che rappresenta sia la vocale U che la consonante V (vedi le prime due parole del testo). Ho a bella posta scritto ‘leggere’, perché, quanto al comprendere bene ciò che vi è scritto – non parlo della struttura sintattica, ma del lessico e del suo significato – l’iscrizione più recente presenta diverse difficoltà all’interpretazione: cosa che non succede di certo (a parte, si è visto, la settima e ultima riga) di fronte al testo dell’iscrizione del 1386, una volta che sia stato trascritto con i caratteri per noi abituali.

Cercherò di seguito, sia pure sinteticamente, di evidenziare quelle che sono, a mio giudizio, le particolarità e le difficoltà proprie di questa seconda iscrizione. Non ci sono, abbiamo visto, pregressi tentativi di trascrizione e puntuale interpretazione del testo. È evidente che la mia trascrizione e la mia interpretazione di quanto vi è scritto, di come vi è scritto e di quanto vi è significato, lungi dal pretendere carattere di definitività, sollecitano uno studio più approfondito da parte di chi, con maggiore competenza della mia, vorrà in esso cimentarsi. 

Devo premettere che ho esaminato il testo in base alla foto che ho sopra riprodotto e che è stata da me personalmente scattata; essa, opportunamente ingrandita, consente un esame discretamente approfondito.

Iniziamo con le particolarità relative alla scrittura. Il lapicida fa ricorso più di una volta ai cosiddetti ‘nessi’, unendo cioè due o più lettere che hanno in comune almeno un tratto, e alle cosiddette ‘legature’, ovvero aggiungendo dei tratti per unire una lettera all’altra. La scelta di connettere o legare le lettere può dipendere dalla finalità di risparmiare spazio o di ‘coprire’ qualche errore di incisione o, limitatamente alla legatura, essere la conseguenza di un eccessivo accostamento delle lettere. Eccone il riscontro:

Riga 1 T+T (FERRETTVS): legatura.

Riga 2 (M+A) (T+E) (ARMATE): due nessi   I+T+I+E (MILITIE): legatura.

Riga 3 I+E (CO/PIE): legatura; F+E C+T (PREFECTVS): due legature;  E+N   (V+V)  (STRENWS): legatura e nesso;  A+R (TAXIAR / CVS): nesso.

Riga 4 C+T+V+S (EXACTVS): legatura.  D+E: (DE): nesso.

Riga 5 V+I (SVI): legatura (V+V)+L  T+V (WLTVS): nesso e legatura,  legatura;  A+D  (AD): legatura  (P+V) (PVBLICAM): nesso

Riga 6 R+I+(V+A+T+A)+M (PRIVATAM): legatura, nesso, legatura, nesso, legatura;  (T+A)+(T+E) (COMODITATE): due nessi uniti da legatura;  (N+D) + I+T+V (FVNDITV): nesso e legatura.

Riga 7 R+E+X+I (EREXIT): legatura; (T+A) +T (ETATI): nesso e legatura.  (V+E) (SVE): nesso.

Si presentano anche casi di abbreviature. Tre si definiscono ‘per contrazione’, in quanto il lapicida omette una o più lettere appartenenti al corpo della parola e segnala con una lineetta (molto simile a una parentesi graffa coricata a pancia in su) collocata sopra la parola interessata dall’abbreviatura. Troviamo la prima nella penultima riga dove in COMODITATE  la M con tanto di lineetta si presenta scempia. Le altre due nell’ultima riga ed entrambe nell’espressione abituale per significare la data ANO DNI che vale appunto ANNO DOMINI: nel primo caso la lineetta è posta sopra la N a indicare la mancanza della lettera gemella, nel secondo, per così dire, si duplica e abbraccia la sequenza NI a indicare la necessità di integrare prima di essa e dopo la D iniziale i segni alfabetici OMI. Ci sono poi almeno tre casi di abbreviatura per troncamento della lettera finale di parola. Nella quarta e nella sesta riga troviamo, infatti, la E che sta per ET; e sempre nella penultima riga, leggiamo COM(M)ODITATE che abbrevia COM(M)ODITATEM. Chi ha pratica del latino non ha difficoltà, in quest’ultimo caso, seguendo il tracciato sintattico, a reintegrare comunque la lettera mancante: la sintassi richiede, infatti, un accusativo retto dalla preposizione AD, e l’accusativo singolare della terza declinazione, alla quale appartiene il sostantivo commoditas, termina appunto in –em. In ogni caso il lapicida segnala l’omissione ponendo sopra l’ultima lettera un segno che indica l’integrazione necessaria, somigliante a una specie di grossa virgola. Infine, si rileva anche un caso di abbreviatura per lettera sovrapposta nella penultima riga dove FVNDITVS sta per FUNDITVS.

Ritroviamo anche in questa seconda iscrizione traccia grafica dello sviluppo del dittongo ae nella vocale e (monottongazione): AR(MA)(TE) MILITIE CO/PIE righe 1/2 per ARMATAE MILITIAE COPIAE; ETATIS SVE riga 7 per AETATIS SVAE. 

Sempre sotto il profilo grafico va evidenziata la forma RELLIGIO/NIS con la L doppia anziché semplice secondo un uso che nel latino classico era invalso per ragioni metriche nella lingua poetica; l’italiano del tempo conosce il medesimo fenomeno (nelle opere del Machiavelli leggiamo, infatti,  più volte relligióne).

Passiamo ora a considerare il lessico utilizzato. Il caso più interessante è, a mio parere, l’uso del termine Taxiarcus che non è registrato né nel Forcellini né nell’Oxford Latin Dictionary [54] e dunque sembra risultare estraneo al latino classico.

Compare invece nei lessici del latino medievale. Il Du Cange, op. cit. (tomo VI, p. 42) registra TAXIARCHUS, AEstimator. Vide Taxa e dunque riconduce il vocabolo all’ambito delle imposizioni, dei tributi di cui il taxiarchus determinava la consistenza provvedendo alla stima dei beni a cui erano riferiti.

Tuttavia, sempre nel medesimo glossario, il lemma precedente rende conto di TAXIARCHA, Gr. Ταξίαρχος, Ductor ordinum, Centurio vel Decurio. Legitur in Hist. Miscella apud Murator. tom. 1. part. 1. pag. 117. Col. 2, vocabolo dell’ambito militare, che pare certamente più in linea con quanto sappiamo del nostro Francesco Ferretti [55].

Possiamo ritenere che l’iscrizione faccia riferimento proprio a questo vocabolo di derivazione greca pur proponendolo nella forma del maschile della seconda declinazione (con terminazione in –us) anziché in quella del maschile della prima (con terminazione al caso nominativo singolare in –a): il latino nella sua fase medievale conosce casi di declinazione dei nomi della prima secondo il modello della seconda declinazione (es. nautus anziché nauta al nom. singolare)[56].

E ci conforta in questo pensiero la lettura delle primissime pagine del libro Diporti notturni, pubblicato proprio da Francesco Ferretti ad Ancona nel 1579-1580 presso lo stampatore Francesco Salvioni [57]: a pagina XIV leggiamo il componimento in distici elegiaci che tal Cesare Maganino di Fossombrone, un dotto precettore pubblico del XVI secolo, dedica “all’Illustre Cavaliere e Tassiarco valorosissimo dell’esercito, Francesco Ferretti” (Illustri Equiti Exercitusq’, Taxiarco Strenuissimo Francisco Ferretto) esaltandone la competenza in materia bellica riversata nei dialoghi che danno vita all’opera.

A questo punto, però, sorge naturale la domanda circa il profilo, il ruolo, il grado di un tassiarco. La storia parte dall’antica Grecia. Il tassiarco era, infatti, “nella repubblica ateniese, ciascuno dei dieci ufficiali (uno per tribù) posti al comando dei dieci schieramenti di opliti, che facevano parte dello stato maggiore dell’esercito con gli ipparchi e gli strateghi dai quali dipendevano”. Così scrive il Grande Dizionario della Lingua Italiana, cit. (vol. 20, pag. 759 s.v.) che cita il Dizionario tecnico-etimologico-filologico (2 voll., con supplemento, Milano, 1828-1841) di Marco Aurelio Marchi (1, II, 252) [58].

Probabilmente, attraverso la mediazione dell’esperienza militare bizantina in cui il ruolo del tassiarco a partire dal X secolo fu quello di comandante di una brigata di fanteria, il termine come voce dotta e tecnica passò prima al latino nella sua fase medievale, e di qui poi anche nel sistema linguistico dell’italiano. Fatta questa premessa, mi sembra che nell’italiano del tempo del nostro Francesco Ferretti la miglior corrispondenza sia proprio quel grado di ‘Sargente maggiore’, con il quale il Capitano Ferretti guidò truppe di fanteria nel corso della sua carriera: proprio nella Pietra del Paragone (pp. 500-501) leggiamo infatti che fu prima “Sargente Maggiore” agli ordini del Duca Guidobaldo di Urbino; quindi, col grado di “Sargente maggiore Generale dell’Illustrissimo Signor Marchese Giacomo Malatesta nel Governo della Provincia d’Albania contro i Turchi in servizio del Serenissimo Dominio Venetiano condusse felicemente otto insegne d’Infanteria Italiana da Venetia à Cattaro”. Se poi vogliamo rapportarci ai nostri giorni, il Tassiarco/Sargente Maggiore Generale corrisponderebbe a un odierno Generale [59].

RELLIGIO è da intendersi, per antonomasia con il significato, assunto dopo la Riforma protestante e d’uso negli scrittori cattolici, di ‘religione cattolica’ oppure, con riferimento all’appartenenza del Ferretti all’ordine dei Cavalieri di Santo Stefano, con il valore di ‘ordine cavalleresco-militare, retto da una regola religiosa’ [60].

PREFECTVS [61] mi sembra perfettamente corrispondente all’italiano ‘capitano’ con cui il Ferretti presentava sé stesso, come è evidente dal frontespizio delle sue opere Della osservanza militare del Capitan Francesco Ferretti d’Ancona (1577) e Diporti notturni per modo di dialoghi familiari del Capitano Francesco Ferretti dell’Ordine di Santo Stefano (1579). Il termine vale ‘capo di uno schieramento armato’, ‘condottiero di un esercito’: molto di più di quanto il termine ‘capitano’ valga nel vocabolario degli eserciti moderni, nel quale designa un ufficiale di rango inferiore. Quanto ad EXACTVS è da intendersi come aggettivo e col significato, già presente nel latino classico, di ‘esperto’, ‘rigoroso’, ‘ineccepibile nell’adempimento del proprio dovere’.

Un’ultima osservazione. La lapide presenta un buco in corrispondenza della quarta riga. Considerato che il danno si è prodotto immediatamente dopo la prima asta di una lettera che mi pare possibile identificare in una M e che è preceduta dalle lettere CO,  e tenuto conto dello spazio sulla riga interessato dal danno, proporrei di integrare tre lettere e di leggere, dato il contesto, CO[MES] [62].

Immediatamente dopo il buco, sempre nella quarta riga, compare, si è visto, il nesso con la lettera E inclusa nella D che costituisce la sigla DE, che può essere variamente interpretata [63]: in considerazione del contesto vi leggerei DE(VOTUS).  Vale la pena di sottolineare che questo aggettivo per il suo significato, sia se inteso come attributivo di COMES sia se altrimenti considerato come predicativo del verbo EREXIT, orienta la lettura del testo dell’iscrizione in direzione della manifestazione di un sentimento, la devozione,  afferente all’ambito della religione, del culto, ambito sul quale già incideva il vocabolo RELLIGIONIS (righe 1-2).

Di seguito la trascrizione del testo prima nella versione cosiddetta ‘interpretativa’ [64] con il ricorso, cioè, ai segni diacritici convenzionali in ambito epigrafico già utilizzati nell’esame della precedente iscrizione, poi in forma continua e secondo la grafia del latino classico:

FRANCISCVS FERRETTVS, RELLIGI/ONIS EQUES, AR(MA)(TE) MILITIE CO/PIE PREFECTVS STRENWS, TAXI(AR)/CUS   EXACTTVS E(T) COM[ES] DE(VOTVS?), SV/DORE SVI WLTVS AD P(UB)LICAM / E(T) PRI(VA)(TA)M COM(M)ODITATE(M) FVNDITVS / EREXIT AN(N)O D(OMI)NI 1582 ETATI˂S> SVE 59

FRANCISCUS FERRETTUS, RELIGIONIS EQUES, ARMATAE MILITIAE COPIAE PRAEFECTUS STRENUUS, TAXIARCHUS EXACTUS ET COMES, DEVOTUS, SUDORE SUI VULTUS AD PUBLICAM ET PRIVATAM COMMODITATEM EREXIT FUNDITUS ANNO DOMINI 1582 AETATIS SUAE 59.

La traduzione, alla luce della trascrizione che ho reso, è la seguente: Francesco Ferretti, Cavaliere della religione cattolica, Capitano valoroso dello schieramento di milizia armata, Tassiarco ineccepibile e Conte, devoto, col sudore del suo volto, eresse dalle fondamenta a pubblico e privato beneficio nell’Anno del Signore 1582, all’età di 59 anni [65].

Nel testo manca l’indicazione di che cosa sia stato eretto dalle fondamenta, cioè, costruito ex novo, nel 1582 da Francesco Ferretti, figlio di Piergentile, all’età di 59 anni (nacque nel 1523 e morì nel 1593). Questa lacuna può comunque facilmente essere spiegata col fatto che la destinazione della lapide era ovviamente l’edificio sul quale era posta e a cui il testo dell’iscrizione poteva di conseguenza riferirsi senza farne esplicita menzione. La puntualizzazione che Francesco eresse ex novo, dalle fondamenta, un edificio è comunque molto importante e significativa, perché sgombra subito il campo dalla possibilità che la lapide ricordi le opere di trasformazione della struttura del castello in residenza signorile: queste, infatti, come descritte nella relazione degli architetti Guerri e Turchi, non furono costruzioni ex novo, ma fondamentalmente ristrutturazioni dell’esistente, in particolare consistenti nella sopraelevazione delle mura perimetrali. Inoltre, poiché la lapide si trova sul muro esterno del castello, ma la sua iscrizione per la presenza di detta puntualizzazione non consente di vedere alcun verosimile legame col sito in cui è posta, consegue che essa originariamente era affissa altrove e solo secondariamente è stata trasferita dove la vediamo. La conferma dello spostamento della lapide arriva per altro anche dalla condizione non perfetta in cui essa si presenta: del buco sulla sua superficie v’è ovviamente chiara evidenza, ma deve essere osservata anche la mancanza della modanatura superiore che delimita la cornice. Sono, per così dire, i danni collaterali dell’asportazione dalla collocazione originaria.

Sul quando e sul perché la lapide fu staccata dal sito originario e posta dove oggi la vediamo, azzarderò più avanti un’ipotesi. A questo punto è d’obbligo cercare di capire quale fosse il suo sito originario.

Abbiamo visto che la Pietra del Paragone (p. 511) ricorda che Francesco, eletto nel 1582 Governatore del Castello, mostrò

il ſuo animo generoſo nella fabrica d’vn proprio Caſino nel Borgo con ſue Loggie, Giardino, e Chieſa eretta da fondamenti in honore del Glorioſo Martire, e Pontefice Stefano il Santo Tutelare della Religione Militare del Sereniſſimo Coſmo de Medici eretta, in proua della ſtima, che faceua quel Gran Prencipe della Pura Nobiltà de Natali formando quel Seminario de Cavalieri, con dotarlo d’entrate, e Comende per iſtillare nell’animo de Nobili vna brama di conſervare con le congiuntioni de Sangui in più generationi una purità de Natali, atta a render fecondo vn Stato d’huomini ingenui, e vie più Glorioſo il ſuo Principe.

Dunque, con generosità Francesco fece erigere nel borgo sorto fuori e presso il castello un casino con delle logge e un giardino e una chiesa dedicata a quel Santo Stefano a cui era intitolato l’ordine religioso cavalleresco fondato, in chiave antiottomana, da Cosimo de’ Medici (Bolla His quae del 1º febbraio 1562 di papa Pio IV) al quale Francesco era orgoglioso di appartenere. Non si può non notare la concordanza sostanziale delle parole utilizzate dall’autore della Pietra del Paragone a proposito della chiesa (“eretta da fondamenti) con quelle riportate sulla lapide (FVNDITVS EREXIT) ma non accompagnate dall’indicazione della costruzione tirata su sin dalle fondamenta, dunque nuova. Questa concordanza lascia pensare che la lapide possa essere stata originariamente posta su un muro della chiesa di S. Stefano. E questa ipotesi si rafforza, e non poco, a mio parere, alla luce di quel DEVOTUS della quarta riga, di cui sopra abbiamo sottolineato l’importanza nel presentare come rispondente a un sentimento di schietta devozione religiosa l’elevazione dalle fondamenta dell’edificio su cui la lastra era stata inizialmente collocata.

Inoltre, la sottolineatura presente nel testo dell’iscrizione, AD PVBLICAM ET PRIVATAM COMMODITATEM, “a pubblico e privato beneficio”, ben si addice alla costruzione di una chiesa destinata al culto del Santo, tanto pubblico, da parte degli abitanti del borgo e del castello, quanto privato, cioè di Francesco e dei suoi familiari.

A questo punto, tuttavia, sorge la necessità di domandarsi dove nello spazio del borgo furono realizzati questa chiesa e il casino con giardino e logge, voluti da Francesco di Piergentile. A chi è nato e vissuto a Castelferretti, ma anche solo a chi vi è venuto da fuori ad abitare, purché il suo occhio miri a certi particolari del patrimonio edilizio del centro storico, è proprio il riferimento alle logge a suggerire, almeno per il casino, la risposta. Le logge, infatti, ancora oggi sono saldamente in piedi: il casino sorgeva dunque pressoché di fronte alla torre centrale del castello che ne presidiava l’accesso attraverso il ponte in muratura costruito nel 1509 [66]. Oggi il casino, con tutte le ristrutturazioni che nel corso dei secoli lo hanno coinvolto, rivive nell’edificio alle spalle delle logge. Del giardino non v’è più traccia, perché il suo spazio è stato occupato da costruzioni e dalle loro pertinenze. Anche la chiesa di Santo Stefano non esiste più.

Il Catasto Gregoriano, consultabile on line sul sito del Progetto Imago [67], tuttavia, ci aiuta a trovarne la collocazione oltre che a vedere la rappresentazione dell’area del giardino, dell’edificio del casino, comunque già diviso in almeno due proprietà, e delle logge. Il Catasto Gregoriano evidenzia, infatti, nella mappa n. 76 della Provincia di Ancona, la situazione nella prima metà dell’800 delle proprietà di edifici e terreni a Castelferretto. Questa, in scala 1:2000, e meglio ancora la relativa mappetta a scala ridotta (1:4000 o 1:8000) mostrano le logge, il corpo edilizio del casino (corrispondente a varie particelle dal n. 31 al n. 34), il giardino (contrassegnato con il numero 30), la chiesa di Santo Stefano (col numero 28). I simboli posti sulla particella catastale sono ovviamente per la chiesa una piccola croce, per il giardino un disegno che lascia intravedere nella sua stilizzazione uno spazio verde. Ecco in successione le foto della mappa e della mappetta che mi ha messo a disposizione l’amico architetto Marco Turchi e che possono essere viste anche sul citato sito del Progetto Imago:

Il relativo registro delle proprietà (detto ‘brogliardo’) riporta con il numero 28 la Chiesa sotto il titolo di S° Stefano e con il numero 30 un terreno del quale, se è difficile decifrare la denominazione riportata, compaiono tuttavia anche altre indicazioni che ho riportato nella seguente tabella:

QUALITA’Situazione del terrenoSuperficie Pertiche Censuarie              Centesimi
Brollo,Brollo sotto il titolo di S° StefanoPiano105

Sopra la dicitura sotto il titolo di S° Stefano compare una linea per cancellarla. Inoltre, l’aggettivo Brollo, cioè ‘brullo’, è scritto due volte: la ripetizione sormonta da metà circa la prima attestazione e questa a sua volta copre (è evidente il tratto più marcato) una parola quasi tutta erasa, ma di cui si intravede ancora la lettera iniziale V. Forse il terreno (ammontante a 1 pertica censuaria e 5 centesimi di superficie (poco più di 1000 m2), inizialmente a ragione accatastato come Verde in quanto giardino, era ormai diventato a metà ‘800 brullo e aveva pertanto probabilmente perso ogni legame con la vicina chiesa, di cui, in condivisione con il casino, costituiva una sorta di dipendenza. Dal casino si poteva accedere al giardino e dal giardino alla chiesa con sostanziale continuità. Ad essa era possibile l’accesso anche dalla strada prospiciente, denominata nella mappa Strada detta di Ponte Murato, corrispondente all’attuale via Pietro Mauri. La chiesa – forse, sarebbe meglio dire, la cappella – misurava in superficie 19 centesimi di pertica censuaria (190 m2) [68].

Le particelle relative alla chiesa, al giardino, e la maggior parte di quelle corrispondenti al corpo edilizio del casino sono riferite alla proprietà di Marcolini Camillo q.m Pietro Paolo, cioè Marcolini Camillo figlio quintogenito del fu (q.m è abbreviazione dell’avverbio latino quondam) Pietro Paolo Marcolini, nobile fanese che nel 1717 “sposò la contessa Francesca Ferretti, ereditiera del suo ramo, consentendo così di aggiungere per sé e per i suoi discendenti anche questo nobile cognome” [69]. Ecco comunque la foto delle prime pagine del brogliardo relativo a Castelferretti Foglio di Falconara Dipartimento del Metauro tratte dal sito del Progetto Imago:

Va detto, per completezza di informazione e lasciando per un momento da parte il Catasto Pontificio, che almeno due opere della metà del XIX secolo ci fanno sapere che allora, oltre alla Chiesa di S. Andrea e a quella di S. Maria della Misericordia, a Castelferretti v’era ancora quella di S. Stefano. Mi riferisco ai libri, da me citati nella precedente nota n. 3, del Peruzzi sulla chiesa anconitana e del Cappelletti sulle chiese d’Italia. Nel primo (p. 52) leggiamo che di chiese in paese “ve ne ha pure un’altra  dedicata a s. Stefano papa e martire patronato della nobile famiglia Marcolini di Fano, la quale vi unì un ospizio a comodo de’ pp. cappuccini di Ancona”; il secondo (p. 183)  conferma l’esistenza di questa chiesa dedicata a “Santo Stefano papa e martire che ha contiguo un ospizio a comodo de’ frati Cappuccini di Ancona”. Mi fermo qui, ma credo che sarebbe interessante approfondire la conoscenza della storia di questa chiesa attraverso l’archivio parrocchiale in cui è impensabile che non si conservino notizie sulla sua vicenda e in particolare sulla sua fine.

E a proposito della fine dell’edificio sacro, troviamo comunque informazioni nella relazione degli architetti Guerri e Turchi (p. 6) che scrivono che nel secolo scorso avvenne “nei primi anni ’30, subito dopo il terremoto, l’apertura dell’attuale via Nazario Sauro, con la conseguente demolizione della vecchia chiesa dell’ex convento di suore, ben presente nella mappa del catasto gregoriano”. La relazione non menziona la chiesa con il titolo che gli spettava, ma non possono esserci dubbi che si tratti proprio della chiesa di S. Stefano che la mappa del Catasto Gregoriano collocava proprio dove oggi inizia la via Nazario Sauro. Forse il terremoto l’aveva fortemente danneggiata e per questo motivo poté essere abbattuta così da consentire l’apertura della nuova via. È  lecito pensare – questa è l’idea che mi sono fatto –  che, prima della demolizione, si provvide all’asportazione della lapide e che questa, per il suo palese riferimento a un Ferretti, fu subito dopo o giù di lì posta sul muro del castello prospiciente via XIV Luglio, dove da qualche decennio sta, sopra l’arco che chiude lo spazio su cui insiste il portone di un’abitazione: al pubblico ricordo dell’intrapresa di un illustre esponente della nobile casata, anche se non riguardante direttamente il castello, si unì probabilmente la motivazione, tutta privata, di adornare e dare un tono di antica solennità all’ingresso, magari appena restaurato o addirittura aperto, dopo i gravi danni che, come è noto,  il sisma del 30 ottobre 1930 arrecò in paese in modo particolare al castello.

Tutto ciò detto rispetto all’iscrizione del 1582 e alla lapide che la riporta, torniamo a delineare la storia dell’evoluzione strutturale del castello. All’anno 1629 risale l’avvio dell’ampliamento della chiesa parrocchiale, ancora collocata all’interno del castello, per meglio ospitare la crescente popolazione: il lavoro terminò nel 1631, come informa la Pietra del Paragone (p. 481), grazie alla premurosa applicazione del Governatore del tempo, Giovanni Ferretti, Cavaliere di Calatrava, figlio di Ugo, del ramo del Conte Angelo di Liverotto [70]. Questa collocazione durò fino al 1869, quando venne edificata la nuova chiesa di S. Andrea nel punto antistante l’odierna Piazza della Libertà.

Tra il ‘600 e il ‘700 i Ferretti dovettero contrastare le ambizioni del Comune di Ancona che voleva inglobare nel proprio territorio il castello e obbligarlo al pagamento di tributi. Nel 1760 ottennero però il definitivo riconoscimento del loro potere sul castello e sul territorio. Ma questa vittoria ebbe, per così dire, corto respiro: nel 1797-99, con l’invasione francese di Napoleone, furono infatti obbligati di provvedere alle spese di occupazione e per questo furono costretti a ipotecare il castello. Nel 1817, con la Restaurazione, i Ferretti furono privati di ogni diritto sulla contea: anche su di loro si abbatté la scure dei decreti con i quali il cardinale Ercole Consalvi, segretario di Stato, riorganizzò lo Stato della Chiesa. Termina così, dopo cinque secoli, la signoria dei Ferretti.  Restano, prima di concludere, da menzionare le ulteriori trasformazioni della struttura del castello intervenute nel corso dei secoli XIX e XX. Mi affido di nuovo alla sintesi della citata relazione degli architetti Guerri e Turchi che alle pp. 6-7 così scrivono:

Nel 1813, come risulta dalla mappa del catasto Gregoriano, il centro del paese è già definitivamente formato con le Piazze delimitate dagli edifici prospicienti il castello già costruiti, manca ancora la nuova chiesa che sarà completata nel 1869 all’esterno del castello con la conseguente demolizione di quella esistente per utilizzarne i materiali. Il fossato, attorno al castello è definitivamente eliminato e si cominciano ad aprire le prime porte nelle mura esterne. Il progressivo frazionamento delle proprietà fa sì che subisca continue modifiche in base alle esigenze funzionali di chi vi abita al momento. […]

A seguito del terremoto del 1930 (30 ottobre ore 8,45) il Castello subisce gravi danni, in particolare nelle parti sommatali delle torri est (di S. Liviero) e nord (di S. Maria), che saranno ricostruite in maniera sommaria, con l’eliminazione dei merli sul fronte stradale. Nella torre est, i barbacani, mal ricostruiti, sorreggono un architrave in calcestruzzo posto in bella vista sul fronte esterno. Da un documento del 1923, una foto commemorativa dei funerali di Remo Grifoni, la torre di S. Liviero è ancora intatta, sulla sommità sono ben visibili i merli, anche se murati, non sono ancora presenti i terrazzi al posto del tetto ed i balconi al piano secondo, le mura al piano terra sono ancora intatte; pertanto, le modifiche dovrebbero essere state apportate in occasione dei restauri avvenuti in seguito al sisma. Nella torre nord (di S. Maria) sono aggiunti balconi e cornicioni in calcestruzzo prefabbricato. All’incirca nello stesso periodo anche la torre sud, torre S. Antonio, subisce radicali modifiche: a seguito di restauri sono eliminate le merlature dei lati prospettanti verso la corte interna, ben visibili in un documento fotografico del 1905. Con il terremoto del 1972, anche la porzione di castello di proprietà pubblica, compresa la torre di ingresso al castello, torre S. Giovanni, è restaurata, a cura della Soprintendenza ai Monumenti. Nell’occasione è stato riaperto un tratto del vecchio fossato scoprendo, fino alle fondamenta, la controscarpa delle mura castellane. Infine, nel 1998 sono stati eseguiti i lavori di pavimentazione di piazza della Libertà con la conseguente chiusura definitiva al traffico dell’area interessata. Attorno al castello ed alle piazze continua a ruotare la vita del paese e anche se con il passare degli anni, trasformato in semplice dimora, ha perso progressivamente il ruolo centrale nella vita economica e sociale del paese che aveva in origine.

Siamo giunti al termine di questo percorso storico. Abbiamo visto come nel corso dei secoli la struttura del Castello sia andata incontro a tante modifiche. Maurizio Mauro (op. cit., p. 62), dopo aver premesso che “questa fortificazione è molto interessante, per i motivi già esposti, e, lo ribadiamo, per essere unica in terra marchigiana ed oltre”, scrive che “a questa unicità fa riscontro un riuso desolante del monumento, degradato a molteplici funzioni che ne sviliscono la vocazione, la funzione, la rarità”. La speranza è, ovviamente, proprio perché non si può riavvolgere il nastro della storia, quella che, con tutti gli interventi di recupero urbanistico attuabili, si possa prima o poi porre qualche rimedio, in sinergia tra pubblico e privato, così da conferire al castello e allo spazio urbano a questo prossimo un ruolo centrale almeno nella vita sociale e culturale della comunità paesana.

M. M.


Note

[31] Giorgio Mangani, Barbara Pasquinelli, “Storia della città” in Guida di Falconara Marittima. La storia, l’arte, i musei, pp. 10-12, Sistema Museale della Provincia di Ancona, Urbania 2011.

[32] Attenzione, soprattutto, al segno ſ che potrebbe essere confuso con quella della f. Si tratta della cosiddetta ‘s lunga’ che a lungo fu usata per trascrivere la consonante s minuscola. La Pietra del Paragone nel 1685 riporta pertanto ſpecioſo con la ‘s lunga’ e Senato con la ‘s corta’. Da notare poi la h iniziale che si estende a forme per noi impensabili (honoreuole habitatione), ben oltre le quattro parole “ha”, “hai”, “hanno” e “ho” che proprio pochi anni dopo, nel 1691, l’Accademia della Crusca stabilì che dovessero riportare la lettera ‘h’ per distinguerle dalle rispettive forme omofone. Infine, vanno segnalati i nessi ‘tti’ e ‘ti’ laddove noi scriviamo ‘zi’ (es. erettione, habitationi).

[33] Si tratta dell’originaria chiesa di Sant’Andrea, che venne poi ampliata tra il 1629 e il 1631 (v. nota n. 70). “Questa chiesa dipoi fu dichiarata parrocchiale, patronato de’ Ferretti, col diritto di nominare il parroco. Ciò si ha pel Breve di Bonifazio IX, 17 aprile 1397. I parrochi furono per lungo tempo amovibili; ma cessarono dall’esserlo il 1621”: così leggiamo a p. 51 della dissertazione di Agostino Peruzzi, La Chiesa Anconitana. Dissertazione di Monsignore Agostino Peruzzi con note e supplementi di Luigi Pauri e di Sebastiano Petrelli canonici della Chiesa cattedrale di Ancona, Parte Prima, Ancona 1845.  Notizie del Breve papale  a pagina 183 del lavoro del prete veneziano Giuseppe Cappelletti, Le Chiese d’Italia, volume 7, Venezia 1848. Queste due pubblicazioni sono rintracciabili e liberamente leggibili nel sistema Google Libri.

[34] G. Campana, “Castelferretti: cenni storici”, in Un paese, una cassa rurale. 1911-1983 Castelferretti e la sua Cassa Rurale ed Artigiana, Cassa Rurale ed Artigiana Castelferretti 1983, p. 13 (= G. Campana in Falconara. Storie e immagini, Comune di Falconara Marittima 1989, p. 26).

[35] Dello stemma iniziale dei Ferretti viene riprodotta l’immagine e data la seguente dettagliata descrizione nella Pietra del Paragone alle pp. 42-43 in un capitoletto intitolato “Eſplicatione Dell’Arme, e ſuoi proprij Colori”: Icon Gentilitia prona, & obliqua cum Alueolo Argenteo, vbi adsunt Baltei duo obliqui Punicei, Icon vero tota circumuoluitur, ac tegitur clamide quadam, ſeu Vmbella intus punicea, foris vero Alba, pendente ex Caſſide quadam caeca, ſeu clauſa, ſuper quam adesſ quaedam faſcea ad inſtar cuiuſdam corone, ex qua oritur piſcis quidam faucibus apertis, deferens balteos duos puniceos & c..  Sempre dalla Pietra del Paragone (p. 24) apprendiamo che il Pesce era per la precisione una Trota e che le Trutte vengono conſiderate da Filoſofi per geroglifico d’animo generoſo, e forte, e ſprezzante tutte le difficoltà, che li ſi oppongono per giungere intrepidamente alle più difficili intrapreſe, quando quelle hanno fra gli altri Peſci queſto di proprio andare contro le caſcate più veementi de Torrenti, aſcendere alle ſommità de canali de Molini. La Trota, dunque, stava a rappresentare la tenacia che distingueva la casata dei Ferretti.

[36] Non è pertanto corretto scrivere che Francesco di Liverotto “aggiunse” allo stemma il leone. D’altra parte, l’autore della Pietra del Paragone è chiaro quando scrive Laſciata ſolo l’antica impreſa del Peſce ovvero scriveremmo noi oggi, “abbandonata solo l’antica immagine del Pesce”. Il verbo ‘lasciare’ vale qui ‘abbandonare’, ‘mettere da parte’, ‘omettere’, (cfr. Grande Dizionario della Lingua Italiana, di Salvatore Battaglia, Torino 1961, vol. 8, p. 786), mentre il sostantivo impresa significa ‘figura’, ‘emblema’ in un’accezione particolare propria del linguaggio dell’araldica (cfr. Grande Dizionario della Lingua Italiana cit., vol. 7, p. 515).

[37] Su Francesco Ferretti, figlio di Liverotto, si legga l’interessante profilo di Angela Lanconelli, in Dizionario Biografico degli ItalianiVol. 47, Istituto Treccani, Roma 1997 https://www.treccani.it/enciclopedia/francesco-ferretti_%28Dizionario-Biografico%29/ .

[38] Non ho potuto ovviamente procedere, data la collocazione della lastra, a misurazione con adeguata scala metrica. Debbo tuttavia le misure all’architetto Marco Turchi che le ha desunte dai rilievi fatti qualche anno fa per la presentazione di un progetto al Comune di Falconara M.ma.

[39] Sottolineo “per intero” in quanto opere dedicate alla storia del castello di Castelferretti non riportano la trascrizione della settima riga. È il caso del volume II dell’autorevole opera di monsignor Mario Natalucci, La vita millenaria di Ancona (Città di Castello 1975), che pur riproduce, a p. 410, la foto dello stemma e della lapide con l’iscrizione, ma a p. 409 trascrive quest’ultima senza l’intera riga finale. Da Natalucci dipendono, mi sembra di capire, sia Maurizio Mauro, Castelli Rocche Torri Cinte fortificate delle Marche, Vol. II, Ravenna 19972, p. 63 nota 4 bis, sia Marina Minelli, La famiglia Ferretti di Ancona, Ancona 1987, p. 61, sia Stefano Graziosi, II feudo dei conti Ferretti: origine, splendore, decadenza, Roma 1988, p. 91 nota 7, che trascrivono il testo dell’iscrizione senza riportarne l’ultima riga.

[40] L’abbreviatura può essere per troncamento (interessa la parte finale della parola in cui viene omessa una o più lettere: ne abbiamo esempi in XRI, AM della prima riga, CAS/TRV, FACTV, P della seconda, MAGNIFICV MILI/TE della terza) o per contrazione (si verifica quando la parola conserva la prima o le prime lettere e l’ultima o le ultime, e talora la lettera o le lettere intermedie: esempio in NOIE nella prima riga, DNM nella terza).

[41] Questa tendenza a trasformare i neutri plurali di senso collettivo in femminili singolari (altro esempio è folium>folia, da cui l’italiano foglia) è minima parte del processo della scomparsa del genere neutro che generalmente viene sostituito dal genere maschile: vinum>vinus, ital. vino). I primi segni di questo processo linguistico si hanno nel latino parlato della fine dell’età imperiale. Cfr. D. Norberg, Manuale di latino medievale, Firenze 1974, p. 32.

[42] C. Du Cange, Glossarium mediae et infimae latinitatis,  s.v., v. 5, p. 277, Niort 1883.

[43] La bolla papale è sostanzialmente una lettera, scritta in latino e munita del sigillo papale (il bollo da cui deriva il termine ‘bolla’), con cui il Papa interviene su questioni di fede o inerenti alle relazioni politiche della Chiesa. Alla bolla vengono tradizionalmente date come titolo da parte di chi la cita  le prime parole del suo testo.

[44] Traggo la citazione da Vittorio Spreti, Enciclopedia storico. nobiliare italiana, v. 3, p. 157, Milano 1930. Nel volume da p. 156 a p. 160, partendo dall’analisi dello stemma, viene percorsa fino ai primi decenni del XX secolo la storia della famiglia e dei suoi pi prestigiosi esponenti.

[45] C. Du Cange, op. cit.  v. 1 , s.v.  A pagina 388 troviamo infatti il lemma contrassegnato come 3. ARMA,  che spiega il vocabolo come segue: “Gentilitia insignia, nostris vulgo Armes, vel Armoiries ; Arme, Italis”. In effetti l’italiano arma (specie nella sua forma disusata arme, ricordata dal Du Cange) vale anche ‘stemma, insegna’: se ne vedano le tante attestazioni riportate a pagina 662 del volume 1 dal Grande dizionario della lingua italiana cit.: vanno da Dino Compagni (1255-1324) al nostro marchigiano Fabio Tombari (1899-1989), passando anche per Dante, Petrarca, Boccaccio, Manzoni, Verga, D’Annunzio. E, in aggiunta a così tante e autorevoli attestazioni, non dimentichiamoci di avere già trovato arme con il valore di ‘stemma, insegna’ proprio nel passo della Pietra del Paragone in cui si descrive lo stemma della famiglia Ferretti nella sua primigenia forma, anteriore all’innovazione del leone voluta da Francesco (vedi la precedente nota ).

[46]  La citazione è tratta da pagina 3 del testo che l’architetto Marco Turchi mi ha gentilmente messo a disposizione. Con lui, che ringrazio di cuore, ho avuto anche il piacere di un lungo e approfondito scambio di vedute su Francesco di Piergentile e la sua lapide del 1582, temi su cui poco più avanti richiamerò l’attenzione del lettore.

[47] “A maestranze albanesi viene affidato anche il restauro, voluto nel 1584 da Vincenzo Ferretti, della chiesa di Santa Maria della Misericordia, fuori del paese, i cui affreschi rappresentano un’importante testimonianza delle decimazioni e della grande paura che si ebbero durante la peste trecentesca. La Madonna protegge infatti sotto il suo mantello le popolazioni locali dal contagio”, ricordano Giorgio Mangani, Barbara Pasquinelli (op. cit., p. 12).

[48] Va riconosciuto a questo conte Francesco Ferretti il merito di aver completato la costruzione, avviata nel 1504, della Villa di Monte Domini che serviva da residenza estiva (cfr. Giorgio Mangani, Barbara Pasquinelli, ibid.). Forse è suo il presunto fantasma che si aggirerebbe nell’edificio, a ragione disgustato dal degrado al quale questo è stato esposto dall’incuria di chi vi avrebbe dovuto provvedere.

[49] Il passo della Pietra del Paragone citato si legge alle pp. 508-511 del libro: il Francesco Ferretti del 1685 vi fornisce un secondo ragguaglio della forza economica e produttiva del Castello, trascorsi 120 anni da quando nel 1565 il suo omonimo, figlio di Piergentile Ferretti, provvide a un primo analogo bilancio. E proprio con riferimento a questo primo ragguaglio prende le mosse il testo:

Il Corpo del Castello delli Ferretti è luogo e juspatronato di questa famiglia delli Ferretti fondato da loro Antichi, privilegiato dalla felice Memoria de Sommi Pontefici, e di nuovo confermato e accresciutosi, e posto in sito piano, cinto di muraglie ben conservate e contenuto di ventiquattro abitationi, alloggiamenti delli Gentilhoumini Padroni, e Signori di questa contea, il Borgo e le Ville sue fanno sessantacinque fuochi, vi sono cinquecento anime. Il Territorio è contenuto di seicento-cinquanta some di terreno, ottimamente fertile, nudo d’Alberi, e li pascoli sono in comune, confina con Falconara, col Cassero, con la Badia di Chiaravalle, con la Rocca di Fiumigino, e con Camerata, ha aria assai buona, e dentro ha acqua buonissima, e sorgente che mai manca, gl’avanzano cinquecento some di frumento l’anno, che si portano a vendere in Ancona, il vino basta per tutto l’anno, non ha olio ma lo comprano da Triccoli, che lo vanno vendendo, non ha lino alla bastanza, loro medesimi lo procurano alle fiere circonvicine, gl’avanzano cinquanta some d’orzo ogn’anno, che si vendono in Ancona, ha sessanta capi di bestie Vaccine, quattrocento Pecore, centodieci Porci, trentacinque para di Bovi, trenta Bestie da Soma, ha cento huomini da portar armi assai bene armati, sono huomini inquieti, e di diverse nationi, ogni quattro mesi ne è Governatore un Gentilhuomino della suddetta famiglia, che si cava per Bossolo, e vi tiene il Vicario. La Pianta del Castello delli Ferretti gira di circuito passa ottantasei, e tre piedi, e mezzo, con haver delineato la pianta, con sua prospettiva verso Ancona. Nel Corso di centoventi anni, che tanti ne corrono dal tempo di tal ragguaglio, al presente tempo in che scriviamo, ha mutato sensibilmente lo Stato detto Castello, e suo Territorio, e per la cultura de Terreni reso assai più abondante de grani, e per l’arborate, e vigne delle quali è stato ornato un Colle detto Monte Domini, abbondantissimo di buoni vini, e per le fabriche di molitissime abitationi augumentato il numero de fuochi fino a centoventuno, come d’anime contandosi presentemente, sei-centodieci, havendo con premurosa applicazione invigilato i Conti e Padroni all’augumento del proprio luogo, per prova del che non sii grave di registrarne un’ordine, con che fu eletto detto Capitan Francesco per Governatore, e sopraintendente a ciò, rimostrato il suo animo generoso nella fabrica d’un proprio Casino nel Borgo con sue Loggie, Giardino, e Chiesa eretta da fondamenti in honore del Glorioso Martire, e Pontefice Stefano il Santo Tutelare della Religione Militare del Serenissimo Cosmo de Medici eretta, in prova della stima, che faceva quel Gran Prencipe della Pura Nobiltà de Natali formando quel seminario de Cavalieri, con dotarlo d’entrate, e Comende per istillare nell’animo de Nobili una brama di conservare con le congiuntioni de Sangui in più generationi una purità de Natali, atta a render fecondo uno Stato d’huomini ingenui, e vie più Glorioso il suo Principe.

[50] Anche per questa lastra devo le misure all’architetto Marco Turchi.

[51] Così scrive il Francesco Ferretti autore della già citata La Pietra del Paragone a pagina 64.

[52] Ovvero, per usare il linguaggio specifico dell’epigrafia, di modulo superiore. Il modulo è il rapporto altezza/larghezza che tende a restare costante da una riga all’altra per tutte le lettere: la lettera montante rompe l’uniformità del modulo.

[53] Solitamente, specie nell’epigrafia del periodo romano, queste lettere più grandi si trovano all’inizio di prenomi e paragrafi (Ida Calabi Limentani, Epigrafia latina, Milano 19733, p. 148).

[54] Si tratta dei due lessici ai quali si ricorre non disponendo ancora della lettera T il Thesaurus Linguae Latinae pubblicato con il contributo di studiosi di tutto il mondo in Germania, a Monaco di Baviera, dalla Bayerische Akademie der Wissenschaften. Il Forcellini prende il nome dal presbitero e grammatico veneto, Eugenio Forcellini, che nel 1761 terminò la sua opera, Lexicon Totius Latinitatis, poi pubblicata postuma nel 1771. Ne sono state in seguito fatte nuove edizioni a cura di valenti studiosi: l’ultima è quella  così denominata : Lexicon totius Latinitatis, J. Facciolati, Aeg. Forcellini et J. Furlanetti seminarii Patavini alumnorum cura, opera et studio lucubratum, nunc demum juxta opera R. Klotz, G. Freund, L. Doderlein aliorumque recentiorum auctius, emendatius melioremque in formam redactum curante doct. Francisco Corradini ejusdem seminarii alumno, Patavii, Typis Seminarii, 1864-87 (4 voll.). L’Oxford Latin Dictionary (Oxford 1968-19821 a volume unico e 20122 in due volumi) è, si può dire, la risposta anglosassone al progetto di matrice tedesca del Thesaurus Linguae Latinae. Si basa su uno spoglio rispetto a quest’ultimo più limitato, ma ha il pregio di essere un’opera conclusa, arrivata alle parole inizianti con l’ultima lettera dell’alfabeto latino.

[55] “Il Ferretti fu soprattutto un uomo d’armi, essendo stato tra l’altro comandante in capo della Repubblica Veneta ed avendo partecipato ad alcune battaglie del sec. XVI, come quella di S. Quintino; fu allo stesso tempo valente ingegnere militare ed eccellente disegnatore di carte nautiche. Tra i suoi scritti l’opera principale è «L’osservanza militare» (Venezia 1568 e 1577, Ancona 1608). Scrisse inoltre i «Diporti notturni» (Ancona 1580)”, così Mario Natalucci, op. cit., p. 412. Un profilo più ricco di Francesco di Piergentile è quello tracciato da Marina Minelli, op. cit., pp. 98-103, che però non ricorda l’impegno di Governatore del Castello a cui era stato eletto nel 1582.

[56]  Cfr. P. Stotz, Handbuch zur lateinischen Sprache des Mittelalters, t. 4 : Formenlehre, Syntax und Stilistik, (Handbuch der Altertumswissenschaft; Abt. 2), München 1998, p. 5.

[57] Oggi possiamo leggere online il testo al seguente indirizzo: https://archive.org/details/bub_gb_oa5JIpw5s0IC .

[58] “‘Tassiarco’: denominazione o titolo di ciascuno dei dieci uffiziali negli eserciti ateniesi, la cui giurisdizione, subordinatamente però allo stratego, stendevasi soltanto sull’infanteria. Erano essi incaricati delle riviste, di fissar le mosse dell’armata, regolar i viveri di cui dovea provvedersi ogni soldato, degradare i soldati semplici riprensibili, ecc.”.

[59] Così il Grande Dizionario della Lingua Italiana, cit., vol. XVIII, p. 722 s.v.: “Sergente generale, sergente maggiore generale. Alto grado negli eserciti dei secoli XVI-XVIII corrispondente a quello attuale di generale”.

[60] Dietro il latino si scorge il coevo italiano dove, come evidenziato dal Grande Dizionario della Lingua Italiana, v. XV, p. 775 e 777, s.v., le due accezioni hanno varie attestazioni.

[61] Il Du Cange, op. cit., (tomo VI, p. 458, s.v.) osserva che con questo termine viene chiamato qui cohorti militum praeest.

[62] La parentesi quadra è il segno diacritico entro il quale racchiudo, come è uso,  la mia proposta di integrazione delle lettere che non si leggono più a causa del danno subito dalla superficie della lapide.

[63] Cfr. A. Cappelli, Lexicon abbreviaturarum. Dizionario di abbreviature latine e italiane, Milano 1929, p. 448, che propone le seguenti possibilità: Devotus, Dea, December. Decurio, Depositus, Die

[64] “Per fornire un testo epigrafico leggibile anche da persone non esperte di epigrafia si ricorre alla trascrizione interpretativa, nella quale bisogna procedere allo scioglimento delle sigle e delle abbreviazioni, all’introduzione della punteggiatura,  alla segnalazione e  all’integrazione,  quando  possibile, delle parti mancanti, servendosi di segni convenzionali, detti “segni diacritici”. Il loro impiego deve essere fatto con particolare attenzione, perché essi consentono al lettore di distinguere quanto effettivamente compare sull’iscrizione e quanto, invece, è dovuto agli interventi apportati da chi pubblica il testo” (Alfredo Buonopane, Manuale di epigrafia latina, Roma 2009, p. 135).

[65] Un paio di considerazioni sulla traduzione e sul testo latino da cui essa muove. 1 – Forse siamo più abituati a usare l’espressione ‘col sudore della fronte’, ma poco cambia in quanto la fronte è parte del volto [si tratta di una delle tante sineddochi cui ricorriamo quando usiamo la parte (la fronte) per il tutto (il volto)]. In ogni caso l’espressione utilizzata nell’epigrafe indica lo sforzo, l’impegno, la fatica con cui conseguiamo, realizziamo qualcosa. La matrice si trova nel latino letterario dei cristiani, più precisamente nella traduzione latina dal greco di un passo della Genesi assai conosciuto (3, 19 Vulg.), quello in cui Dio dice ad Adamo: In sudore vultus tui vesceris pane, donec revertaris in terram de qua sumptus es: quia pulvis es et in pulverem reverteris. Si noterà che nel testo dell’epigrafe il termine sudore non è preceduto dalla preposizione in: il lapicida, pur prendendo le mosse da un modello ampiamente conosciuto, per così dire normalizza secondo le regole del latino classico l’espressione del complemento di mezzo utilizzando l’ablativo semplice. Nella traduzione in latino del testo greco era stata utilizzata la preposizione in per rendere la preposizione greca corrispondente; e, a sua volta, il greco aveva utilizzato con valore strumentale la sua preposizione per analogia con la costruzione dell’originale, scritto in ebraico. Sull’uso di in con valore strumentale nel latino dei cristiani e nel latino volgare essenziali e chiare le parole di D. Norberg, op. cit., pp. 24-25. 2 – Traduco “all’età di 59 anni” per ragioni di scorrevolezza, come se il testo latino proponesse davvero un complemento di età. Invero, anche la sequenza al genitivo aetatis suae 59, che compare immediatamente dopo Anno Domini 1582, dipende, infatti, anno: letteralmente, dunque, dovremmo tradurre “nell’Anno del Signore 1582, nell’anno della sua età 59”.

[66] Ne abbiamo notizia dalla Pietra del Paragone (p.171) dove si rende conto della determinatione preſa Comunemente fin dell’anno 1509 di far fabricare vn Ponte di Pietra auanti la Porta del detto Caſtello, con agrauare (…) i proprij ſudditi in 60 Fiorini per detta fabrica.

[67] Questo progetto, curato dall’Archivio di Stato di Roma, https://imagoarchiviodistatoroma.cultura.gov.it/Gregoriano/gregoriano_intro.html, consente di consultare mappe, mappette e relativi brogliardi del Catasto Gregoriano, “primo catasto particellare di tutto lo Stato Pontificio, promosso da Pio VII nel 1816 e attivato da Gregorio XVI nel 1835” (cito dalla pagina iniziale del sito).

[68] Più o meno grande come la Chiesa di S. Maria della Misericordia presso il cimitero (18 centesimi di pertica censuaria; al catasto la relativa particella porta il numero 70) e più piccola, circa la metà, della Chiesa di S. Andrea Apostolo ancora collocata nell’originaria sede all’interno della corte del castello (particella 12 a cui comunque, in contrasto con la rappresentazione nella mappa, il registro assegna una superficie di 15 centesimi di pertica).

[69] Lidia Pupilli, “La famiglia Marcolini e i suoi rapporti col circondario” in Camillo Marcolini. Un progetto liberale dopo l’Unità, Fondazione Cassa di Risparmio di Fano, Fano 2006, p. 120.

[70] Di seguito il testo che riporta in latino prioritariamente ‘la particola d’Iſtromento’, cioè la particella dell’atto pubblico steso da un notaio, che attesta che fu lo zio carnale di Giovanni, Cesare a dare il via ai lavori di ampliamento della chiesa, al tempo del suo governatorato; segue quindi il testo dell’iscrizione su marmo posta da Giovanni a inaugurazione dell’opera:

Con premuroſa ſua applicatione tirò a fine la fabrica della Chieſa del detto Caſtello (deſiderata di commune conſenſo dà tutti della Famiglia per renderla in ſtato più atto al conſorſo degl’habitatori del loro Territorio, mentre gouernaua detto luogo il Prior Ceſare ſuo Zio Carnale, come ne appare l’autentica dalla ſeguente particola d’Iſtromento

Cum Illuſtriſimus D. Comes Frater Ceſar Ferrettus Eques Hieroſolymitanus , & Prior Anglia , modo- que in Ferrettorum Caſtro Gubernator , nec non alii DD . Comites da Ferrettis dictum Caſtrum , illiuſque Territorium , & pertinentias Dominantes , Eccleſiam ſub inuocatione , & titulo S. Andrea , ibi existentem ab eorum Antenatis ſuis ſumptibus , & expenſis constructam , & aediſicatam tamquam nimis paruam anguſtam , & nullo modo reſpectu gentium dicto Gubernio , & Dominio ſubiectarum multitudinis , quæ continuo ad diuinis officiis aſſiſten: in dicta Eccleſia concurrunt , abilem , & recipientem , ampliare , illamque grandiorem capacem , & in condecentem ſormam redigere ſumopere deſiderantes & c .

Ne reſta anco in Marmo ſopra la porta di detta Chieſa la ſeguente inſcrittione,

D. O. M.

TEmplum hoc à funda

mento per Comites Caftri

Ferretti reedificatum fuit , Io :

 Ferretto Comite , & Equite

 de Calatraua Gubernante an

 no Domini M.DC.XXXI

     Bibliografia

Alfredo Buonopane, Manuale di epigrafia latina, Roma 2009

Ida Calabi Limentani, Epigrafia latina, Milano 19733

Giuseppe Campana, “Castelferretti: cenni storici”,  in Un paese, una cassa rurale. 1911-1983 Castelferretti e la sua Cassa Rurale ed Artigiana, Cassa Rurale ed Artigiana Castelferretti 1983 (= G. Campana in Falconara. Storie e immagini, Comune di Falconara Marittima 1989)

Giuseppe Cappelletti, Le Chiese d’Italia, volume 7, Venezia 1848

Adriano  Cappelli, Lexicon abbreviaturarum. Dizionario di abbreviature latine e italiane, Milano 1929

Francesco Ferretti, Diporti notturni,  Ancona 1579-1580

Francesco Ferretti, L’osservanza militare, Venezia 1568 e 1577 (Ancona 1608)

Francesco Ferretti, Pietra del paragone della vera nobiltà discorso genealogico de conti Ferretti con varie notitie historiche, e riflessioni sopra i pregi della nobiltà, Ancona 1685

Charles (Fresne) Du Cange et al., Glossarium mediae et infimae latinitatis, Niort 1883

Grande Dizionario della Lingua Italiana, di Salvatore Battaglia, Torino 1961

Stefano Graziosi, II feudo dei conti Ferretti: origine, splendore, decadenza, Roma 1988

Danilo Guerri – Marco Turchi, Relazione tecnico-illustrativa del  “Progetto preliminare di recupero funzionale del complesso monumentale castello di Castelferretti e delle piazze limitrofe”, Falconara 2006

Guida di Falconara M.ma: appunti di storia falconarese, Castelferretti 1977

Angela Lanconelli, “Francesco Ferretti” in Dizionario Biografico degli ItalianiVolume 47, Istituto Treccani, Roma 1997

Giorgio Mangani, Barbara Pasquinelli, Guida di Falconara Marittima. La storia, l’arte, i musei, Sistema  Museale  della Provincia di Ancona, Urbania 2011

Marco Aurelio Marchi, Dizionario tecnico-etimologico-filologico, 2 voll., con supplemento, Milano, 1828-1841

Maurizio Mauro, Castelli Rocche Torri Cinte fortificate delle Marche, Vol. II, Ravenna 19972

Marina Minelli,  La famiglia Ferretti di Ancona, Ancona 1987

Mario Natalucci, La vita millenaria di Ancona, II, Città di Castello 1975

Dag Norberg, Manuale di latino medievale, Firenze 1974

Agostino Peruzzi, La Chiesa Anconitana. Dissertazione di Monsignore Agostino Peruzzi con note e supplementi di Luigi Pauri e di Sebastiano Petrelli canonici della Chiesa cattedrale di Ancona, Parte Prima, Ancona 1845

Lidia Pupilli, “La famiglia Marcolini e i suoi rapporti col circondario” in Camillo Marcolini. Un progetto liberale dopo l’Unità, Fondazione Cassa di Risparmio di Fano, Fano 2006

Vittorio Spreti, Enciclopedia storico – nobiliare italiana, vol. 3, Milano 1930

P. Stotz, Handbuch zur lateinischen Sprache des Mittelalters, t. 4 : Formenlehre, Syntax und Stilistik, (Handbuch der Altertumswissenschaft; Abt. 2), München 1998

Dall’album fotografico di Mario…

Vanda e Mario

Vanda e Mario nel 1943: 17 anni lei, 20 anni lui…
…sposi in viaggio di nozze a Bologna.
1950. Mario organizza la prima squadra di calcio di Castelferretti
Mario saluta i familiari, i parenti, gli amici e i colleghi di lavoro mentre scende per l’ultima volta dal locomotore alla stazione di Ancona
Mario e i compagni dell’A.N.P.I. in occasione dell’inaugurazione del monumento dello scultore Edmondo Giuliani (2 giugno 1984)
Mario con altri pensionati del paese alle manifestazioni sindacali

Il funerale laico di Mario (foto scattate da Ruffina Molinelli, a lungo la fotografa di Castelferretti)

Loredana e Vanda con i medici dell’Ospedale di Chiaravalle (ultimo a destra il Primario prof. Marchegiani)
Il ringraziamento del Presidente dell’ U.S.L. n. 9 per la donazione ricevuta grazie alla sottoscrizione pubblica in ricordo di Mario

Una replica a “Mario de Roma e l’orologio di Castel Ferretti”

  1. wow!! 65Mario de Roma e l’orologio di Castel Ferretti

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